Nelle prossime elezioni in Grecia, Syriza è favorito ma l’obiettivo di un governo dotato di una maggioranza solida è incerto. Immaginare Syriza come laboratorio di un progetto nuovo per l’Europa o come un’officina di idee all’avanguardia per la soluzione della crisi, sarebbe irrealistico e, tutto sommato, una bella pretesa. Syriza deve la sua fortuna all’aver interpretato con coerenza, e difeso con costanza, la volontà di una parte consistente del popolo greco di resistere a ciò che considera una prevaricazione pura.

Se verso Syriza non converge la maggioranza assoluta degli elettori greci è perché la resistenza alle imposizioni non basta a garantire una via d’uscita da una situazione estremamente difficile, di cui la Grecia ha le sue responsabilità che non sono indifferenti. Tuttavia, ammalarsi (per propria negligenza oltre che per circostanze sfavorevoli e colpe altrui) non è un buon motivo per subire passivamente una cura violenta, che aggrava lo stato di malattia: per questo, la ribellione di cui è espressione Syriza è una reazione sana, ancor più che legittima, e il consenso, di cui gode, giustificato.

Si usa dire che la posta in gioco in Grecia sia il diritto di un popolo di decidere il suo destino, la difesa di una sovranità nazionale democratica contro poteri sovranazionali non legittimati da un consenso popolare. Che il principio della sovranità nazionale sia stato nel caso greco violato, è innegabile, ma concentrare l’attenzione su questo fatto grave, interpretandolo astrattamente dal suo contesto, può essere fuorviante. La volontà popolare di cui è portavoce Syriza, non insegue l’autodeterminazione. Aspira alla negoziazione di una soluzione con le istituzioni europee, che resti all’interno dei confini dell’Europa.

Le forze democratiche greche non mettono in dubbio la cessione di una parte della sovranità nazionale che l’appartenenza all’Europa comporta, ma mettono l’accento sulla reciprocità del consenso e sulla democraticità dei metodi che tale appartenenza comporta. La richiesta dei greci è ragionevole, a condizione che ci sia l’Europa. Perché se l’Europa, come entità unitaria, non c’è, l’unica possibilità democratica, di cui i popoli che aspirano a crearla dispongono, è di separare le loro strade.

L’esistenza di un’Europa unita è un’esigenza storicamente determinata dei suoi popoli sul piano economico, politico e culturale. Tuttavia, questa esigenza è una condizione necessaria, ma non sufficiente. L’Europa come entità unitaria resterà un sogno impossibile, se la vulnerabile forma di coesistenza politico-finanziaria non troverà un’espressione identitaria sul piano psicologico, se non diventerà un comune sentire che trova nelle differenze, al suo interno e con il mondo esterno, la forza propulsiva che promuove relazioni di scambio.

Se parlare di Europa unita ha un significato, è perché la storia l’ha plasmata come luogo d’incontri e di fermenti, di circolazione di merci, di idee e di sentimenti, di contaminazioni e di rivoluzioni culturali e politiche, di coesistenza pacifica e di conflitti terribili. La storia, fatta di comuni catastrofi e risorgimenti, unisce gli Europei in uno stesso destino di lutti e di speranze, molto di più di quanto la miseria dei campanilismi li divida.

Nondimeno, la dissoluzione avrà la meglio, se l’ineguaglianza dei rapporti tra i diversi paesi, e all’interno di ogni paese, continuerà a crescere. La rondine greca non porta soluzioni economiche o politiche, fa domanda di primavera: la ridefinizione del contratto europeo e del rapporto tra i potenti e i popoli, la parità dei contraenti sul piano del desiderio.