Porte che si aprono, porte che si chiudono, il fumo denso di molte sigarette, mettere e togliere i piatti dalla tavola, la frase ripetuta come un mantra di fare piano, di non svegliare la piccolina anche quando i toni diventano cattivi e le parole picchiano come schiaffi.
Il nuovo film di Cristi Puiu (rivelato da La morte del signor Lazarescu), tra i migliori cineasti nella nuova generazione del cinema rumeno – si chiama Sieranevada, e arriva (infine,) nelle nostre sale un anno dopo la presentazione al festival di Cannes 2016 dove era in concorso.

Il titolo non ha alcun legame con quello che racconta ma, come ha spiegato l’autore, è stato proprio il suo aspetto surreale a farglielo scegliere. E surreale appare anche quanto accade durante la commemorazione del padre del protagonista, il medico Lary, morto un anno prima e nella sua famiglia riunita per l’occasione: un microcosmo frenetico di omissioni indigeste e tradimenti nel quale Puiu riflette, come nel grande specchio al centro della stanza da pranzo, l’intera società rumena devastata dall’ipocrisia della rivoluzione e del dopo Ceausescu.

Il prete incaricato di officiare la cerimonia tarda, e tra chi siede nel salone come tra quelli che ogni tanto fuggono per dirsi dei «segreti» nelle altre stanze, il nervosismo sembra aumentare (sarà forse la fame) accumulando dispute, rimbrotti, ira, lacrime, scoperte non liete, umiliazioni.
Chiusi lì, senza capire perché, in una situazione assurda – il cibo non si può toccare perché prima deve essere benedetto – gli ospiti si lanciano in un regolamento di conti (il primo riferimento è L’angelo sterminatore di Bunuel).

L’idea di un dispositivo familiare con cui organizzare la narrazione è quasi classica – del resto:non è la famiglia la base della funzione sociale? Qui la sfera pubblica ci appare già sgretolata nell’accumulo di menzogne «consapevoli» ignorate per opportunismo proprio come accade nei rapporti tra i personaggi, Lary e la sua elegantissima moglie per primi ma anche genitori e figli, fratelli e sorelle, tutti complici, tutti in silenzio, tutti con le proprie certezze e dubbi inespressi: il prete, il militare, l’anziana dirigente comunista di partito col suo cappello di zibellino che litiga con la giovane donna fervente religiosa del dopo Ceausescu, il cugino ossessionato dal complotto mondiale che in internet trova la verità assoluta, sia questa sull’11 settembre o la strage di Charlie Hebdo. Anche se il punto di vista è affidato al maggiore dei fratelli, Lary appunto (Mimi Branescu) il medico stimato e un po’ invidiato che svelerà la sua inadeguatezza nelle piccole cose – comprare il vestito giusto alla figlia per la recita scolastica – e in quelle «importanti»: toccherà a lui calmare il nervosismo, accudire la madre, curare chi si sente male e soprattutto provare a ristabilire un po’ di verità in quel mondo fatto solo di bugie.

Puiu dilata il tempo, i gesti si ripetono, le parole si accumulano, l’esterno grigio di Bucarest è malato e isterico come i suoi interni. Non c’e spazio per il «vuoto» nelle quasi tre ore di film che il regista utilizza fino all’ultimo secondo per condurre all’estremo con umorismo da commedia nera, i suoi personaggi e con essi lo spettatore. È forse cinico Lary con quel suo sguardo di cui non si riesce a cogliere in pieno il pensiero su quanto accade? O è forse la sua risata l’arma con cui ristabilire il senso di quanto accade, un esorcismo alla liturgia sociale, storica, personale che si inanella tra quelle quattro mura?

La macchina da presa, al centro dell’appartamento, trascina il nostro sguardo in questo movimento estenuante e brutale in pianosequenza acquistando una sua vita: esita, segue un personaggio, poi un altro, esprime una libertà. E quella che è una figura narrativa «classica» – famiglia e società – diviene la materia su cui esercitare il dispositivo di una messinscena a tratti forse anche compiaciuta, ma che contiene una riflessione forte sul cinema e sul suo rapporto col presente.
Lì, in questo interno domestico non sono infatti in gioco solo i risentimenti di ciascuno ma il rapporto anche doloroso tra individuo e società nel quale entra la Romania e insieme la nostra epoca coi suoi pregudizi, bigottismi, xenofobia, populismo. Una rivelazione lenta, quasi in tempo reale che parla anche di noi.