Sfugge a una precisa classificazione il libro di Paolo Portoghesi Roma/amor (Marsilio, pp. 398, euro 22,00) che si presenta come un’opera ibrida a metà tra autobiografia, trattato di architettura, pamphlet filosofico. Legato a Roma da un legame quasi viscerale, Portoghesi dichiara sin dall’apertura di aver cominciato ad apprendere la nozione di spazio proprio sotto l’influenza della Città Eterna. Malgrado il trasporto verso una realtà percepita come famigliare, l’autore tratteggia un profilo di Roma assai poco oleografico, andandosi a soffermare sia sulle sue molteplici – e per questo affascinanti – contraddizioni, sia sui contrastanti sentimenti che essa ha suscitato in poeti e letterati del passato.
Da questo punto di vista, il libro si presenta anche come una sorta di antologia di testi scritti da autori culturalmente e cronologicamente molto distanti fra loro (Pasolini, Belli, cantori anonimi della contemporanea periferia romana) sulla spinta dell’attrazione o del livore verso l’Urbe; tra le righe, infatti, Portoghesi lascia intendere quanto il topos dell’odio nei confronti della Capitale sia stato pervasivo attraverso i secoli, basti pensare all’accanita posizione antiromana di Giacomo Leopardi, oppure, più vicini nel tempo, agli interventi di Moravia, Dacia Maraini, Parise, raccolti nella silloge Contro Roma edita da Bompiani nel 1975.
Nella tensione profusa a cogliere l’inconscio di un luogo problematico ma irriducibilmente vitale, così come nel libero impianto narrativo fatto di digressioni, slanci al futuro, puntualizzazioni erudite, il saggio di Portoghesi può essere avvicinato a un precedente, e celebrato, libro scritto da un maestro dell’architettura quale Ludovico Quaroni: Immagine di Roma (1969, Laterza). Entrambe le opere risultano animate, oltre che da una peculiare intonazione elegiaca, dalla volontà di far affiorare le infinite contraddizioni della Città Eterna mediante l’analisi del caotico e stratificato tessuto urbanistico-architettonico.
A tal fine, il sottotitolo del libro di Portoghesi – Memoria, racconto, speranza – sintetizza i cardini di una narrazione densa e non lineare che, pur focalizzandosi su Roma – e più precisamente sull’eterogenea esperienza che l’autore, in qualità di architetto, di storico e di intellettuale negli anni ha intessuto con la sua città d’origine –, arriva a toccare argomenti assai più ampi, legati tanto alla sfera del sacro quanto alla dimensione dell’ecologia e della memoria.
Nella vastità delle questioni affrontate, un tema di fondo funziona da leitmotiv: l’idea che il futuro di un centro urbano, e per esteso dei suoi abitanti, possa essere costruito attraverso una cosciente valorizzazione dell’eredità del passato. E proprio dall’ascolto e dall’interpretazione critica della tradizione – da sempre al centro della poetica di Portoghesi e, più in generale, di quella sensibilità postmoderna di cui egli stesso è stato uno più autorevoli interpreti – viene individuato un possibile antidoto per risollevare i destini di una Roma sempre più «interrotta» e sempre più immersa in una crisi edilizia e anche morale. Di qui, dunque, l’esortazione a intraprendere stili di vita più responsabili e la spinta a risemantizzare la centralità di una capitale che, non senza dissidi, porta inscritti in sé i segni indelebili della classicità e della spiritualità cristiana.
Nonostante l’approccio laico, Portoghesi appare mosso da un profondo senso religioso – per certi versi affine a quello di Pasolini – che gli consente di porre in evidenza l’esemplarità recentemente assunta dalla Chiesa rispetto alla causa della salvezza del pianeta; non a caso, in accordo al pensiero di Zygmunt Bauman, tende a sottolineare i meriti di papa Francesco nell’aver saputo instillare nelle masse la coscienza della fragilità dell’ecosistema.
Grazie a un artificio retorico utilizzato di frequente e che predilige i passaggi di scala e di proporzione, Portoghesi non solo tratta delle condizioni critiche di Roma per alludere all’estrema precarietà della Terra, ma imposta il suo discorso facendo proficuamente interagire la prospettiva storica con quella contemporanea, muovendosi in contesti sia «alti» sia «bassi», dal centro storico-monumentale della città all’estrema periferia. Degne di nota appaiono le riflessioni avanzate in relazione al dilagare della Street art in aree urbane povere e rimosse (il Quadraro, il Trullo); Portoghesi prende sul serio il fenomeno – da molti considerato marginale e privo di dignità – e, all’origine della sua fortuna, individua un bisogno di decorazione – per certi versi un diritto alla decorazione – legittimamente rivendicato dagli strati più popolari della società che, rivitalizzando l’antica consuetudine delle facciate graffite e dipinte, si oppongono alla povertà d’immagine dei quartieri in cui sono confinati.
Acuto interprete del volto della Capitale meno visibile – si pensi, oltre al più volte ristampato Roma barocca (1966), al pionieristico studio L’eclettismo a Roma (1968) –, Portoghesi riesce a descrivere con una prosa limpida ed evocativa la specificità dell’abitare in particolari «isole» della città. Tutto il libro, infatti, appare percorso dalla fascinazione per la casa intesa come teatro degli affetti e come spazio di rappresentazione del proprio io; ecco quindi tornare alla mente dell’autore la casa dei nonni in via della Chiesa Nuova – posta nelle vicinanze delle architetture borrominiane e dunque cruciale per la sua successiva formazione –, la casa di via Gregoriana arredata con selezionati pezzi liberty e, ancora, l’appartamento in via Sant’Alberto Magno efficacemente descritto come «la quintessenza dell’Aventino» in quanto «luogo della separazione e del distacco».
Al di là di una scrittura capace di restituire in maniera vivida il discontinuo genius loci di Roma, il saggio di Portoghesi si presenta irradiato da ekfrasis inaspettate; su tutte, forse, spicca la descrizione della tipica «puntarella romana» – verdura alla base di uno dei piatti della tradizione – tratteggiata, quasi come un capitello corinzio, in modo da esaltarne la consistenza plastica.
Roma, oltre che come catalizzatrice di sensazioni, funziona anche come stimolo per dare avvio a un flusso di coscienza inframmezzato dal vissuto di uno dei protagonisti della cultura architettonica italiana del Novecento. Sul filo della memoria Portoghesi ripercorre le fasi salienti della sua carriera rievocando le passioni letterarie adolescenziali, le aspirazioni giovanili, gli incontri formativi avvenuti fuori e dentro la facoltà di architettura. Insofferente già nei primi anni cinquanta verso gli sterili dogmatismi del Movimento Moderno, egli ricorda le lezioni di Vincenzo Fasolo e dell’ormai anziano Marcello Piacentini – allora docente di Edilizia Cittadina – sorpreso a raccontare l’urbanistica di Parigi «come si racconta una storia d’amore».
Fu tuttavia il contatto con Mario Ridolfi ad aprirgli inedite prospettive di ricerca, tese a far convergere la spazialità barocca all’interno dell’etimo modernista; l’incontro con il maestro elettivo è infatti narrato in termini di una vera e propria epifania: «appena laureato andai a trovare Ridolfi nel suo studio. Quando uscii mi misi a correre a perdifiato, la stessa cosa che mi era successa quando conquistai il mio primo amore». Con sfumature altrettanto intense l’autore passa poi a rievocare il sodalizio, breve ma fecondo, con Bruno Zevi, interrotto nel 1967 a causa delle divergenti interpretazioni di Borromini.
Tra dissapori e contrasti, successi professionali, architetture realizzate e progetti mai venuti alla luce, Portoghesi struttura la sua autobiografia delineando, da un osservatorio tutto personale, anche un segmento della storia dell’architettura italiana del secondo Novecento. Una storia che è eroica ma al contempo umana perché intrisa dei propri affetti. E forse, in margine a questa narrazione, Portoghesi sembra suggerire che l’amore per Roma non può essere disgiunto dall’amore per l’architettura in generale.