Nel 1422 il duca d’Uzès salutò l’arrivo al trono di Carlo VII con la frase, divenuta poi celebre: «Le roi est mort, vive le roi!» La locuzione, leggermente mutata in «Il re è morto, lunga vita al re!» passò alla storia e venne ripresa da case reali, autori, politici. Gli Enigma dedicarono alla frase un loro album (Le Roi Est Mort, Vive Le Roi!, 1996), mentre il 19 aprile 1946 Lord Robert Cecil salutò il dissolvimento della Società delle Nazioni a Ginevra parafrasando la proposizione del duca d’Uzès esclamando «La Società delle Nazioni è morta, lunga vita alle Nazioni Unite!»
Il passo è stato oggi ripreso anche da Kathleen Bühler, Michael Baumgartner e Fabienne Eggelhöfer del Kunstmuseum e del Zentrum Paul Klee di Berna, che hanno unito le forze per commemorare i cent’anni della Rivoluzione d’Ottobre inaugurando la mostra La rivoluzione è morta, lunga vita alla rivoluzione che è possibile vedere nei due musei della capitale svizzera fino al 9 luglio.
Due rassegne in una, quindi, ma assai differenti tra loro rispecchiando la tipologia artistica dei due musei ospitanti. «Da Malevich a Judd» è il sottotitolo della mostra nel Centro Paul Klee, mentre «Da Deineka a Bartana» è la parte dedicata nel Kunstmuseum. Nell’avveniristica struttura a onda del Centro Paul Klee, costruita da Renzo Piano nel 2005, si concentrano i lavori dei movimenti avanguardisti russi ed europei del primo Novecento: il Suprematismo, il Costruttivismo fino a giungere alla scuola minimalista passando dal Bauhaus.

L’oggetto insignificante
È l’arte non figurativa che prende il sopravvento e, come era nell’idea di Kazimir Malevich, fondatore del Suprematismo, il concetto stesso di arte viene sublimata in un’emancipazione della sensibilità. «Dal punto di vista dei suprematisti le apparenze esteriori della natura non offrono alcun interesse; solo la sensibilità è essenziale. L’oggetto in sé non significa nulla. L’arte perviene col suprematismo all’espressione pura senza rappresentazione» spiegherà lo stesso Malevich.
È un dato di fatto che le vicende politiche della Rivoluzione russa vennero precedute, e in un certo senso, prepararono il terreno per i cambiamenti sociali dagli avanguardisti, in particolare dai costruttivisti di Vladimir Tatlin e Alexander Rodchenko. La Rivoluzione e il crollo del secolare impero zarista contribuirono a convincere i costruttivisti che un nuovo mondo, alimentato dai progressi scientifici e tecnologici, era possibile. Il rispetto e l’ammirazione degli artisti russi verso i bolscevismo e i rivoluzionari furono, almeno fino all’ascesa di Stalin e l’affermarsi del realismo socialista, contraccambiati dal nuovo assetto politico russo e sovietico. Il neonato Commissariato del Popolo per l’Educazione incoraggiò queste nuove forme artistiche come espressione del proletariato in funzione antiborghese e anticapitalista, favorendo l’apertura di nuove scuole d’arte.

Semi da Bauhaus
La mostra illustra questo passaggio con le opere più significative dei rappresentanti avanguardisti russi, dai già citati Malevich e Rodchenko sino a Kandinskij per poi valicare i confini politici e ideologici e trasferirsi fino in America Latina. Per la prima volta il fulcro ideologico e creativo dell’arte non risiedeva nell’Europa dell’ovest, ma in quella dell’est. Il Costruttivismo, nato ufficialmente nel 1920 con il Manifesto del realismo dei fratelli Naum Gabo e Antoine Pevsner, fu il seme da cui sbocciarono le scuole del De Stijl e del Bauhaus, verso cui confluirono artisti come Paul Klee, Peter Keler e László Moholy-Nagy.

Canoni estetici
La seconda parte della mostra La rivoluzione è morta, lunga vita alla rivoluzione, quella denominata «Da Deineka a Bartana», esposta al Kunstmseum di Berna, tratta il periodo post-astrattista e quello del Realismo socialista, inaugurato da Stalin negli anni Trenta. La necessità del ritorno all’ordine convinse il governo bolscevico che il tempo dell’immaginazione astratta era finito. Le idee dovevano rapportarsi a un concetto più terreno, pragmatico e realista.
Lo stesso Malevich si piegò al nuovo diktat confezionando, ad uso e consumo del regime, il ciclo dei contadini che, pur contenendo elementi della scuola costruttivista, abbandona l’astrattismo per atterrare in una forma d’arte realistica e più comprensibile alle masse popolari.

Nel 1934 l’Unione degli Artisti Sovietici impose un canone estetico ben codificato che diede vita al realismo socialista a cui tutti si dovevano attenere; una sorta di Biblia pauperum socialista. Stalin stesso chiese agli artisti di diventare «ingegneri dell’anima» per rappresentare la verità del Partito. Restringendo la libertà di immaginazione, l’arte diventava il nuovo vangelo della morale socialista secondi i canoni del Partito: il nuovo sistema socialista non solo era l’unica verità possibile nel nuovo e nel mondo futuro, ma era anche il traguardo finale verso cui l’uomo doveva incamminarsi. Tutto doveva essere codificato e conforme alla volontà della nomenklatura: dai colori alle forme, dalla posa dei soggetti allo sfondo dei paesaggi appiattendo così la vena artistica individuale e abbassando il livello dello stile del Realismo Socialista.

I principali rappresentanti di questa nuova scuola furono Alexander Deineka e Alexander Gerasimov (quest’ultimo particolarmente attento a ritrarre i leader del Partito), i quali accolsero con entusiasmo le nuove regole emanate dal Pcus e inaugurarono la fortunata serie di poster di propaganda sovietica che ancora oggi appassiona tanto i collezionisti di tutto il mondo.

Vladimir Dubossarsky and Alexander Vinogradov-What the Homeland Begins With-photo ©Piergiorgio Pescali
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Arriva la Sots Art
Così come fece il Costruttivismo, anche il Realismo Socialista varcò le frontiere dell’Urss e della Cortina di ferro per essere preso ad esempio per una nuova scuola artistica. La nuova corrente artistica trovò una vena particolarmente fortunata nelle due Germanie (Est e Ovest) in tutti i campi delle arti visive. Nell’ex Ddr artisti come Ulrich Weiss, Kurt Tetzlaff, Cornelia Schleime e Lutz Dammbeck interpretarono il loro ruolo di registi evidenziando con particolare sagacia e coraggio le contraddizioni all’interno della società socialista, mentre dall’altra parte del Muro i dipinti del maoista Jörg Immendorff, liberati dalle restrizioni del regime sovietico, cercavano un collegamento più stretto e meno ideologico tra arte e potere.

Solo negli anni Settanta, e con maggior vigore negli anni Ottanta, la critica artistica della società sovietica riuscì a farsi largo anche in Urss. Vitalij Komar e Alexander Melamid inaugurarono, nel 1972, il filone della Sots-Art, una combinazione di termini (e stili artistici) tra la Pop-Art statunitense e il Sotsrealism (Realismo Socialista). Se la Pop-Art parodiava la società consumistica, la parallela Sots-Art prendeva gli stessi spunti all’interno della società socialista sovietica e persino della propaganda del Partito.

La Sots-Art fu il preludio di una nuova forma d’arte che si andò sviluppando dopo la caduta dell’Unione Sovietica e di cui il duo Vladimir Dubossarsky e Alexander Vinogradov sono i maggiori rappresentanti. Il famoso lavoro What the Homeland Begins With, dipinto nel 2006, oltre ad essere stato scelto come poster per la mostra di Berna, è anche un triste riconoscimento del fallimento del socialismo sovietico e al tempo stesso una spietata critica al consumismo e all’edonismo di un capitalismo sfrenato.