Il Punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista (ombre corte, pp. 158, euro 15) presenta in un’unica raccolta quasi quarant’anni della riflessione teorica e politica di Silvia Federici, studiosa (ha insegnato presso l’Università di Port Harcourt in Nigeria e la Hofstra University di New York) e soprattutto militante politica femminista. Del 1974 è il saggio che apre il volume, del 2010 quello conclusivo. Tra questi due estremi si collocano processi di trasformazione del capitalismo che rischiano di rendere i testi più datati quasi un souvenir dal passato, a meno di non approfittare di questo scarto temporale per leggere la riflessione di Federici a ritroso, sia per valutare potenzialità e limiti della sua più recente proposta politica, sia per utilizzarla come «grado zero» dei percorsi attuali dei movimenti sociali in modo da vagliare le possibilità reali di resistere alle trasformazioni del capitalismo globale.

Per Federici la messa in comune (commoning) del lavoro riproduttivo, la sua gestione al di fuori delle logiche del mercato, unisce la resistenza opposta dalle donne ai nuovi processi di enclosure nei contesti post-coloniali agli esperimenti di «auto-riproduzione» praticati dai movimenti sociali contemporanei. Orti urbani, cucine di quartiere, movimenti per il free software sono considerati modi – non utopici ma già in atto, benché non integrati in un progetto complessivo condiviso dai movimenti radicali – di sottrarre le condizioni della riproduzione al comando del salario che il capitale impone a quote crescenti della popolazione mondiale attraverso una nuova «accumulazione originaria». In questa resistenza le donne avrebbero un ruolo cruciale non grazie a una loro naturale vocazione, ma in virtù del bagaglio di sapere e dell’esperienza di lotta che hanno storicamente accumulato nel lavoro riproduttivo. Federici opera così un passaggio dal rifiuto alla valorizzazione del lavoro riproduttivo. Il rifiuto segnava la rivendicazione di un salario per il lavoro domestico negli anni Settanta. Il capitale aveva contenuto i costi della riproduzione della forza lavoro trasformando il lavoro domestico in un’attività «naturale» per le donne e perciò non pagata. Pretendere un salario significava «de-sessualizzare» quel lavoro riconoscendolo come tale e non come una componente essenziale di una presunta identità femminile.

Dal rifiuto alla valorizzazione

Politicizzare il lavoro riproduttivo permetteva di considerare le donne come parte della «classe» anche se non erano direttamente coinvolte in un rapporto salariale, in virtù della loro funzione specifica all’interno della divisione del lavoro. Vi è quindi continuità tra rifiuto e valorizzazione del lavoro riproduttivo, perché in entrambi i casi le donne traggono il loro «significato» politico dalla posizione in cui sono collocate dai rapporti capitalistici di (ri)produzione. Per questo, mentre coglie un problema, la critica di Federici al femminismo italiano della differenza risulta essa stessa problematica: pur avendo il merito di aver rifiutato l’assimilazione delle donne agli uomini attraverso l’uguaglianza, il femminismo della differenza ha trasformato quest’ultima in una «natura» femminile da affermare al di fuori di un progetto di trasformazione sociale. Bisogna però domandarsi in che cosa questa trasformazione consista per le donne se la loro «seconda natura capitalistica» – la loro esperienza come «riproduttrici» – è il valore politico da affermare nella prospettiva dei commons. È allora significativo che il «patriarcato» appaia a Federici del tutto assorbito nel rapporto capitalistico.

Violenza sessuale, pornografia, prostituzione e nuove forme di «caccia alle streghe» risultano dunque effetti collaterali della trasformazioni del capitale – benché innescati anche dal rifiuto opposto dalle donne alla divisione sessuale del lavoro – tanto che ogni conflitto sessuale sembra poter essere «risolto» da una consapevolezza del ruolo delle donne nella lotta di classe. Negli anni Settanta la rivendicazione del salario per il lavoro domestico era rivolta non ai mariti ma allo Stato, «l’“Uomo” che trae realmente profitto da questo lavoro»; ora il bagaglio politico delle donne come riproduttrici è una risorsa tanto per le donne quanto per gli uomini, «sia per demolire l’architettura sessuata delle nostre vite, sia per ricostruire le nostre case e le nostre vite come beni comuni».

Nell’indicare la società capitalistica come la causa dell’oppressione delle donne, in ogni caso, Federici fa della loro condizione una chiave specifica per comprendere processi di portata globale. Nei saggi centrali del volume la riorganizzazione delle politiche (ri)produttive nel quadro della globalizzazione è interpretata alla luce della sempre più marcata coincidenza tra divisione sessuale e internazionale del lavoro. La subordinazione delle donne è rovesciata, per dirla con Chandra Talpa de Mohanty, in un «privilegio epistemologico» che sarebbe invece cancellato, secondo Federici, dalle teorie del lavoro «immateriale» che, mentre riconoscono la dimensione «affettiva» di tutto il lavoro, mettono in ombra la specificità di quello riproduttivo.

Le enclave di libertà

Queste letture – e in particolare quella di Toni Negri e Micheal Hardt, con cui Federici si confronta direttamente – esprimerebbero una visione «tecnicista» della rivoluzione che avrebbe già impedito a Marx di riconoscere la funzione e il significato del lavoro riproduttivo delle donne per la lotta di classe. Non solo le macchine non potranno mai sostituire il lavoro riproduttivo umano, ma la tecnologia è anche il segno più evidente del rapporto distruttivo del capitale con la natura. Indicando l’irriducibile specificità del lavoro riproduttivo, Federici mette in guardia contro i modelli interpretativi «sviluppisti» che focalizzano il centro dell’iniziativa politica nelle presunte figure più avanzate del lavoro produttivo (il cosiddetto «cognitariato») e relegano a forme anacronistiche modalità di erogazione del lavoro, come quello a domicilio, che sono in realtà parte di un progetto di lungo periodo del capitale. Tuttavia, è in questo passagio che la sua proposta politica rivela forse i punti più problematici.

I commons, infatti, rischiano di cristallizzare un’associazione tra donne e natura in chiave anti-tecnologica che fa il paio con una concezione dei rapporti sociali più rivolta verso il passato che non capace di misurarsi con le contraddizioni del presente. Se è vero – come ammette Federici – che il vantaggio della teoria di Negri e Hardt è quello di considerare la produzione del comune come immanente all’organizzazione capitalistica del lavoro, allora è difficile considerare i commons come un «fuori» dal capitale o dal mercato senza farne enclave la cui possibilità di esistenza dipende dalla loro irrilevanza politica – zone franche perché indifferenti per il capitale – o dalla loro funzione di calmieramento degli effetti della crisi proprio come l’economia di sussistenza delle donne del Terzo mondo aveva «ammortizzato» gli effetti della globalizzazione. Non stupisce, perciò, che per Federici i limiti di Marx siano superati grazie a un riferimento all’anarchismo di Kropotkin o al socialismo utopistico.

Il miraggio del reddito

Il problema sollevato negli anni Settanta, in altre parole, resta aperto: «se assumiamo che ogni lotta debba concludersi con una redistribuzione della povertà, assumiamo l’inevitabilità della nostra sconfitta». Per questo, le domande che Federici pone nel corso del suo lungo lavoro di definizione del punto zero della rivoluzione – l’imprescindibile fondamento femminista della lotta di classe – restano ineludibili. Pensare la dimensione sociale della riproduzione significa, ad esempio, porre la questione dell’aborto (sempre più attuale nei processi di riorganizzazione capitalistica oltre la crisi) non solo nei termini di una libera scelta individuale delle donne sul proprio corpo, ma alla luce delle condizioni materiali nelle quali si dà quella scelta. Essa impone di domandarsi che cosa significa pretendere un riconoscimento della vita messa al lavoro in termini di «reddito» senza fare di quel reddito il miraggio di una perfetta equivalenza salariale e dello Stato un mediatore neutrale. Essa obbliga a domandarsi se la comunità – senza la quale non si danno commons – possa essere la risposta al problema di una società globale sempre più organizzata attraverso l’esclusiva mediazione del denaro. Essa spinge a interrogarsi, come femministe, sul problema del potere, quello che Federici «percepiva» nelle grandi assemblee di donne di quarant’anni fa, in una dimensione di massa difficilmente conseguibile nelle comunità della riproduzione. Ma proprio la riproduzione, come sostiene Federici, è il punto zero della rivoluzione persino in un presente globale nel quale la liberazione di molte donne dal lavoro riproduttivo – magari grazie al lavoro di una donna migrante – ha spinto alcune a dichiarare la fine del patriarcato. Benché del tempo sia trascorso, forse è ancora necessario ammettere che «possiamo anche non servire un uomo in particolare, ma siamo tutte in un rapporto subordinato nei confronti dell’intero mondo maschile».

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