Il quarto anniversario del golpe militare dell’ex generale Abdel Fattah al’Sisi, il 3 luglio, è passato senza clamori. Eppure appena due settimane prima, in un tribunale del Cairo, moriva in circostanze poco chiare la seconda più illustre vittima del colpo di Stato, il primo presidente democraticamente eletto dell’Egitto, Mohammed Morsi. La seconda vittima, perché la prima è il popolo egiziano.

IL TEMPO PASSA in fretta: quattro anni dal golpe, otto dai diciotto giorni rivoluzionari di piazza Tahrir che hanno cambiato il mondo arabo e la percezione che di questo – convintamente dipinto come immobile e monolitico – si ha sull’altra sponda del Mediterraneo. A ricostruire quei giorni è Gianni Del Panta in L’Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione. Da piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi (Il Mulino, pp. 288, euro 26).
L’autore pone una domanda: perché quel moto rivoluzionario, capace di unire classi sociali diverse e che in 18 giorni ha abbattuto una delle dittature più stabili del secolo scorso, ha fallito? Perché dopo due anni dalla caduta di Mubarak l’Egitto si è tramutato in una dittatura militare tra le più feroci della storia moderna del paese?

Nel testo, che si apre con un’accurata analisi del concetto di «rivoluzione», si rintraccia la risposta: la rivoluzione non è stata in grado di dare vita a una struttura alternativa di potere, di conquistare le istituzioni dello Stato per smantellarle e sostituirle, processo che l’autore ritiene imprescindibile alla trasformazione dei rapporti di dominio e di produzione. Allo stesso modo, mentre il movimento popolare (diversi poli ideologici, dalla sinistra trotskista all’islamismo neoliberista dei Fratelli Musulmani) rimuoveva il dittatore senza rimuovere il sistema, nelle fabbriche il dinamismo senza precedenti della mobilitazione operaia falliva nell’impossessarsi dei mezzi di produzione.

NELLA MANCATA emersione di una sovranità multipla, di organi di autogestione nei quartieri, le fabbriche, le università, il sistema – che nell’Egitto rivoluzionario è stato incarnato dall’esercito – è sopravvissuto a se stesso, disfacendosi via via delle alleanze di comodo necessarie nel periodo post-Tahrir: se la prima vittima dell’opportunismo militare sono stati i Fratelli Musulmani, la seconda sono state le masse. Quelle masse rese complici di un golpe «legittimato» che ha permesso l’avvio dell’attuale autoritarismo iperliberista dove il potere economico e politico è monopolio esclusivo di quella che Del Panta definisce «borghesia in armi».

Facendo propri gli strumenti analitici marxiani, Del Panta affronta il tema – troppo recente per essere letto con gli occhi dello storico – attraverso la lente di classe. Con fondamentali rimandi ai decenni precedenti, alle trasformazioni del blocco storico post-indipendenza, al percorso dell’ideologia di Stato (in campo politico ed economico) da Nasser a Sadat fino a Mubarak, all’accumulazione di una latente ma potente energia rivoluzionaria figlia di decenni di ingiustizie sociali, il libro è un viaggio dentro la struttura di classe della società egiziana.

FELLAHIN, operai, militari di leva, proletariato urbano, classe media, la borghesia parassitaria e quella pia sono i gruppi che si incontrano e si scontrano sul palcoscenico di Tahrir. Un palcoscenico ben più ampio della piazza di una megalopoli da 10 milioni di abitanti: la rivoluzione ha investito come un tornado i diversi strati della popolazione, facendone convergere le aspirazioni in un equilibrio perfetto e quasi invisibile agli occhi di un mondo incredulo. Attivisti, classe media, professionisti, studenti hanno occupato la piazza, mentre le classi subalterne attaccavano nelle periferie i simboli del potere, le caserme, le sedi del partito di governo.

Una convergenza di energie rivoluzionarie e interessi di classe, poi dissipata dal radicamento di una borghesia militare, vera classe capitalista egemone che lega il controllo dei mezzi di produzione al monopolio della violenza e degli strumenti di coercizione. Ma quelle energie non sono evaporate e il libro lascia il lettore con una speranza. La rivoluzione ha un’eredità insopprimibile: «Milioni di uomini e donne sono stati pervasi dalle aspirazioni emancipatorie della rivoluzione. Le coscienze di vasti settori delle classi subalterne sono state profondamente trasformate dalla vitalità e la radicalità del processo rivoluzionario e dagli ideali di giustizia sociale e libertà». Ideali che rendono una seconda rivoluzione possibile.