La prima volta che incontrai Stella Jean è stata a Torino in occasione di una kermesse abbastanza insolita per una città che fa dell’understatement tout court una religione. Cosa c’entra la moda con il nord ovest? Poco o niente, in effetti. Considerando che le caratteristiche di leggerezza, iniziativa e giocosità del fashion poco corrispondono ai paesaggi nebbiosi. Conoscevo la moda di Jean perché, nel suo essere completamente nuova, mi colpì da subito. Quei colori sgargianti, etnici si può dire, senza considerare questo termine sminuente, come accade solitamente quando si definisce un capo etnico, pensando subito a una bancarella frikkettona piuttosto che a un ricordo di viaggio esotico. I colori, sì, forti e impattanti, talmente tanto da coprire il resto del suo ragionamento, costituito da forme sartoriali e capacità di sminuire il peso dall’haute per renderla fruibile, godibile. Arrivabile. Un pensiero, questo, che sono riuscita a formulare solo a posteriori, dopo averla incontrata, meglio, dopo averla vista. Dopo aver capito cioè come e quanto dosare il tutto. Con naturalezza. Stella è una donna bellissima, padre italiano e madre haitiana, pelle ambrata, fisico svettante, eleganza naturale e innata, dialettica perfetta e contenuti altissimi. Questo il quadro della signora. Il tutto senza suscitare la benché minima invidia o senso d’inferiorità. Ciò che comunica trasmette un senso di arricchimento oltre a un desiderio, pressoché immediato, di indossare una delle sue creazioni. Quel giorno, semplicissima, la sua giacca «impegnativa» era buttata su un paio di pantaloni verde militare, scarpe con tacco color carne, una camicia bianca. Classe sì, ma con libertà. Semplice, non banale. La moda per Jean è iniziata, prima, come modella, complice l’amicizia della madre con lo stilista Von Furstenberg. Un periodo breve, perché non c’era molto che la attraesse in quel mondo nonostante la sua giovane età «l’unico momento emozionante era quell’istante prima di uscire in passerella dove innegabilmente c’è adrenalina. Poi nulla. Per me il lavoro equivale a un rapporto amoroso, se non c’è eccitazione, se non c’è pathos, non riesco a portarlo avanti. Mi attraeva molto di più tutto ciò che accadeva prima, quelle interminabili ore trascorse nelle prove in sartoria, con queste donne incredibili, le sarte, che sanno perfettamente cosa fare, con le movenze precise e un linguaggio preciso, anche. Ci sono termini affascinanti come Garbo, ad esempio, che indica la curva delle pieghe degli abiti. Mi ha sempre colpito che fosse la stessa parola che in altri contesti è caduta in disuso. Mentre ha un significato bellissimo». Inesorabilmente, il suo percorso ha iniziato quindi a essere quello delle collezioni, ma dall’altra parte. Tra le varie cose in cui si buttò, cruciale, fu il concorso «Who is on Next» realizzato in collaborazione tra ALTAROMA e Vogue Italia. «Nelle prime due edizioni cercai di portare delle belle collezioni. Sono un’appassionata d’arte, di pittura. Erano dei bei vestiti. Niente di trascendentale. La terza volta pensai: porto la mia vita, me stessa. Se mi bocciano non è un problema ci ho fatto il callo». Attraverso la moda Jean ritrova se stessa, mette insieme i pezzi di una vita a metà, sempre in bilico tra la terra natia della madre Violette, Haiti, cui è profondamente legata e di cui apprezza ogni sfumatura e tradizione, e quella natia, di suo padre Marcello. Un’Italia in cui sei sempre e comunque straniero se il colore della tua pelle ha una sfumatura diversa dal bianco, e non importa cosa dica il tuo passaporto, dove tu sia nato, se il tuo accento non tradisce nessuna «stranieritudine», il punto è che non sei dei nostri. E non lo sarai mai. Stella ha natali privilegiati con studi all’altezza «ero l’unica nera a frequentare il più famoso liceo classico di Roma Nord. Non sono mai, mai, stata accettata. È una violenza il sentirsi chiedere, continuamente, da dove vieni. Di dove sei. Sono italiana, sono nata a Roma. Non ci crede nessuno. Non importa il tuo lessico, la conoscenza delle strade, nulla importa. Ed è solo un fatto cromatico. Niente di più. a un certo punto ho ovviato dicendo che ero haitiana, a questo credevano. Ma era solamente un altro involucro di bugie, perché lo sono solamente al cinquanta per cento. Avevo però la necessità di ovviare in qualche modo a questa modalità di aggressione». «Lo styling che ho presentato a Who is on next raccontava la mia storia» si trattava di tre mise molto particolari «gonna e camicia, sostanzialmente. Le stoffe delle gonne le presi nel quartiere africano dietro Termini, le camicie erano quelle dell’armadio di mio padre. Ho unito due culture: il forte imprinting materno, con i colori e le suggestioni dei caraibi con le forme e lo stile da sartoria. Marcello, mio padre, era un uomo d’altri tempi, altissimo, si faceva fare i vestiti su misura e io lo accompagnavo spesso. Quindi il taglio è quello totalmente italiano che ripercorre lo stile costruito anni ’50 e ’60. Ecco che quindi le stoffe a contrasto diventano portabili, non da rifilare nel baule, come quando torniamo da un viaggio che ci ha portati lontani». Addosso alle modelle buttò dei gioielloni ottocenteschi di bigiotteria «Napoleone fu sconfitto per la prima volta ad Haiti. Non è riportato da nessuna parte, ma è così. Quando gli schiavi scacciarono i coloni e gli eserciti abbandonavano il paese, tutti iniziarono ad occupare quelle bellissime ville. Le schiave salirono delle stanze delle signore e iniziarono a buttarsi addosso, alla rinfusa, i loro gioielli e tutto quello che trovavano. Ripercorsi quel momento nello styling. Non c’era niente di estetico né di casuale. Pensai che magari non avrebbero funzionato da un punto di vista estetico ma avrebbero comunque raccontato qualcosa, un affrancamento, una liberazione». A un primo impatto la commissione, vedendo i vestiti appesi sulle grucce, tirò dritto e la eliminò. Tutti avevano però il diritto di sfilare e lì successe qualcosa. «E una volta indossate che le mie creazioni acquistano un senso. Franca Sozzani e il resto della giuria fecero un passo indietro, riformularono il giudizio. E vinsi». Fu molto di più che aggiudicarsi un concorso per Jean, fu la sua grande occasione di essere ascoltata, finalmente, e compresa. Proprio da quel mondo effimero che tutti guardiamo spesso con sospetto perché portatore sano di superficialità «Eppure, nonostante i suoi limiti, è un universo in grado di lasciarsi dietro pregiudizi e clichè. Probabilmente per la sua predisposizione all’incanto, al desiderio di rimanere stupiti, come i fanciulli». Jean suggerisce una moda ma la cosa che le piace di più è quando la «sua» donna si rende indipendente, mischiando, secondo la sua sensibilità, pezzi della collezione con altri già presenti nell’armadio, piccoli must come una t shirt o una marinière, o una camicia del marito. Stella Jean è in piena escalation di successo. La cantante Rihanna ad esempio ha appena indossato, a sorpresa, un suo modello alla Casa Bianca. Tutto sta accadendo in maniera spontanea. La sua attenzione, nel frattempo, è come sempre rivolta alla fase creativa, a quei mesi che precedono il cat walk, alla GRAZIA e alla ricerca. Imprescindibile, nel suo percorso, l’incontro con Simone Cipriani che la trascina nel mondo di Ethical Fashion. «Fu Simonetta Gianfelici, la mia talent scout, a volere con tutte le forze il nostro incontro. Il primo viaggio che facemmo insieme fu in Burkina Faso. Mi resi subito conto di come fossi digiuna di troppe cose. Per esempio, il mio utilizzo delle stoffe si limitava al Wax che pensavo essere africano. Invece non lo è! è un prodotto coloniale, un mercato incrementato dagli africani ma di cui godono solo i colonizzatori! È terribile, che dietro questi disegni gioiosi ci sia una storia cruenta che deve essere raccontata. Deve diventare una bandiera africana reale, di cui loro possano, a ragione, godere i frutti». Con Ethical Fashion Stella è andata anche in Kenya, Mali, Haiti. «Ogni volta andiamo in un villaggio dove incontriamo donne che portano avanti, da sempre, il loro sapere. Non ci rechiamo lì con l’idea di portare dell’aiuto perché non è assolutamente così. Si tratta di uno scambio completamente paritario, anzi, se devo dire quello che sento profondamente, sono io quella a beneficiare maggiormente di questi incontri. In proporzione incontro persone che sono assolutamente padrone delle tecniche che ci mettono a disposizione. Io imparo, da questo Sapere così formato. In ogni collezione introduco una nuova tecnica artigianale, che è la fonte ispiratrice del tutto. Cresciamo insieme, perché anche loro, aumentando l’interesse e la quantità di capi da produrre si sono dovute attrezzare di conseguenza». Durante la prima sfilata a Milano nel Teatro Armani, Cipriani fece portare una televisione nel villaggio e tutte poterono assistere a ciò che stava accadendo, che era frutto del loro lavoro. «Bisogna capovolgere un pensiero molto radicato che ha che fare con una presunta inferiorità dell’Africa. Prendiamo le stoffe, prendiamo il Bogolan, una tecnica talmente sofisticata da non aver nulla da invidiare al nostro tombolo». Per Jean l’Africa «è il continente del futuro». Il suo rapporto con essa è totalizzante e ispirante, al punto da diventare quasi un pensiero politico, una presa di posizione chiara e significativa. Ressemblè è un urlo con il quale i rivoltosi ad Haiti iniziavano le loro battaglie. Ressemblè è il suono che apre ogni sua sfilata, come per dire: siamo qui per godere e divertirci ma ascoltatemi! Ho qualcosa da dire! «Ciò che cerco di comunicare con le mie sfilate è che la contro colonizzazione è inevitabile. Abbiamo occupato il sud del mondo in maniera barbara, imponendo le nostre tradizioni a popoli già formati. L’incontro oggi avverrà in maniera molto più pacifica anche se c’è tanto da recuperare». Non solo moda. Quindi. Dopo aver trascorso gran parte della vita a trovare un modo per sentirsi accettata e forse anche per accettarsi e comprendere il limite altrui, adesso, è giunto il momento della pacificiazione. Grazie alla moda, la lavoro, alla creatività incanalata correttamente, seguendo se stessa: «Quando finisci di piangerti addosso, ti alzi e perseveri, ti rendi conto che non tutti sono ottusi e che è pieno di persone di buona volontà». Anche per Stella Jean c’è un personale I Have a Dream «che non ci sia più bisogno di me, o di persone che agiscono in questo modo, per comprendere che culture lontane possono condividere lo stesso spazio, lo stesso luogo, lo stesso tempo».