Oltre la cima scura del vulcano c’è l’Eldorado. Pepe, ragazzo maya che si spezza la schiena nella piantagioni di caffè consumando i pochi soldi in «pagherò» di liquore prima di incassarli ci crede davvero. Il suo Eldorado è l’America coi soldi e le ville con piscina, il Messico che sta dall’altra parte e li separa dal confine è un piccolo pezzetto di terra, poca cosa. Ma Pepe non sa nemmeno parlare lo spagnolo come quasi tutti i maya della regione, come farai gli chiede Maria che di quel ragazzo ribelle è un po’ innamorata, e nella sua insofferenze vede il passaporto anche per la sua libertà.

 
Ixcanul il nome del vulcano dà il titolo (orginale) al film d’esordio di Jayro Bustamante guatemalteco, quasi quarantenne (è nato nel ’77) cresciuto nei luoghi del film che da ragazzino ha imparato a conoscere seguendo la madre nelle campagne sanitarie di aiuto alle comunità maya. Discriminate, sfruttate, massacrate dal colonialismo spagnolo che ha continuato come in tutta l’America latina a cancellare le tracce dei nativi nei secoli. In Guatemala poverissimi, devastati dal genocidio della dittatura imposta dagli Stati uniti, visto che gli indios erano la maggioranza delle forze guerrigliere (marxiste) di opposizione, che è continuato anche finita la guerra civile. La minoranza spagnola al potere gli toglie tutto, a cominciare dai figli, ci dice il regista che il commercio di bimbi fiorisce complici le istituzioni, la polizia, i giudici, i medici.

 
Ma non è questo, non solo almeno il cuore del film che anzi quando esplicita il suo intento «politicamente impegnato» appare più rigido. Il punto di forza è la sensibilità delle sue immagini, l’uso del piano sequenza controllato e senza compiacimenti che si tratti di filmare i contadini al lavoro mentre danno da bere al maiale dell’alcol perché si accoppi, o quando si vede la giovane protagonista fare l’amore col ragazzo dopo essersi «esercitata» su un tronco d’albero. E il suo sguardo sui corpi dei personaggi nel loro rito quotidiano, i momenti più belli del film sono nella complicità che unisce Maria e sua madre, del resto il femminile è la scelta narrativa del film. Un legame quello tra le due donne teneramente fisico, fatto di carezze e di una sapienza antica tramadata nel tempo, contare le lune e saltare sul vulcano. Di una tattilità che del corpo coglie gli umori e i cambiamenti, di confidenze, mani che si toccano, che accarezzano senza imbarazzi.

 

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Bustamante lavora dunque sul paesaggio, emozionale e fisico al tempo stesso, sulla terra, sulla vita quotidiana dei suoi contadini scandita dalla disperata e continua fatica di sopravvivere. Per questo ha organizzato laboratori di recitazione con la comunità maya in cui ha raccolto storie, esperienze, violenza subita. La cultura e la lingua e soprattutto il segno esistenziale, e poetico, del loro rapporto con la natura,e con il vulcano che li sovrasta.

 
Maria,la bravissima María Mercedes Coroy ha diciassette anni e il mistero di una bellezza antica. Vorrebbe ribellarsi alla sua condizione ma è schiava e dunque le è proibito. I genitori l’hanno promessa al capo piantagione, uno che li ricatta col lavoro e con la catapecchia in cui vivono, la sua rivolta comincia con l’arma che ancora le appartiene il corpo, l’unico strumento rivoluzionario rimasto prima che le tolgano anche quello. Non era del resto la sua scoperta e la sua liberazione al centro di ogni movimento rivoluzionario, oggi più che mai visti gli integralismi e la nuova schiavitù della globalizzazione. Fa l’amore con Pepe nello scarico del bar, tra le voci ubriache degli altri ragazzi, rimane incinta e difende questo suo bambino a cui non sembra avere diritto. Maria crede troppo alle cose la rimprovera la madre, non devi credere a tutto quello che ti dicono ma quella bimba che sta per nascere, e che la salverà dal matrimonio combinato anche se non dalla miseria è l’unica cosa che ha e la fa sentire immortale.

 
C’è una durezza quasi implacabilenella messinscena di Bustamante, costruita sull’opposizione dei due spazi: la natura poco idilliaca dove vivono i suoi protagonisti in cui i sogni di un altrove, il cielo invisibile oltre il vulcano, non soffocano antiche credenze, riti che li tengono anch’essi in qualche modo prigionieri e che sembrano di pazzi visti con l’occhio di oggi. E il mondo «fuori», una modernità straniera ugualmente rapace, forse persino più subdola nell’averli già condannati per sempre. Resta il gesto solitario di una fuga, come quella di Pepe, il punk della comunità che dice al servo dei padroni: «Perché sei dalla loro parte?». E la consapevolezza confusa di Maria (che non è credulona come sembra) che al ragazzo quando vaneggia dell’America vista solo sulle riviste – replica che lui non sa parlare inglese, e dove andrà, cosa farà? Dovresti imparare lo spagnolo prima dell’inglese, gli dice mentre raccolgono il caffé, e lui cattivo: «È la gente come te che rovina questo Paese». Ecco la sua consapevolezza sapere, conoscere, non farsi derubare. Lei ci prova, con quello che ha, e il regista le restituisce una potenza il cui urlo silenzioso nelle due immagini che aprono e chiudono il film risuona universale.