Una è contadina, kolkhoziana, viene dalla campagna, guida il trattore e fa nascere i vitelli. L’altra è bella, disordinata, femminista impegnata in collettivi, manifestazioni e lotta per legalizzare l’aborto. Si incontrano a Parigi per caso ma: «Io non credo al caso» urlerà mesi dopo – ed è il colpo di fulmine: baci, carezze, orgasmi, perdersi in lunghi pomeriggi erotici. La Belle saison di Catherine Corsini, regista francese di quella generazione del cinema di oltralpe «nata» alla fine degli anni Ottanta ha qualcosa di autobiografico, e insieme la capacità di raccontare l’essenza di un tempo, gli anni Settanta, senza retorica né eroismi, spostandone l’accento, e la rappresentazione, nello spazio intimo, in quel «privato-ma-politico» che ne è stato il segno rivoluzionario.

Eccoci dunque nel 1973 Carole – Cécile de France, protagonista per Eastwood, i Dardenne, Klapisch – insegna spagnolo e combatte per i diritti delle donne, nel collettivo aiutano le ragazze a abortire cercando al tempo stesso di diffondere la pratica della contraccezione. Discussioni infinite, fuori i maschi da casa, qualcuno (più di uno) in Piazza Grande ha riso, ma certo se pensiamo a oggi da ridere c’è molto poco visto che quei diritti come quelli dei lavoratori sembrano retrocessi nella vita quotidiana, e ancora prima nella cultura.
Le strade parigine hanno vissuto le battaglie del Sessantotto, ma in provincia da dove arriva Delphine, (la giovane e sorprendente Izia Higeline) e tra i contadini come suo padre l’uomo è sempre l’uomo, è lui che dispone fuori e dentro come gestire il lavoro, la madre di Deplhine non ha mai deciso nulla. E quando la ragazza è obbligata a assumere la gestione della malconcia fattoria di famiglia, quasi «vergine giurata», finisce nel mondo degli uomini, al loro tavolo e a decidere insieme a loro Carole che piomba in campagna, e il loro amore diventano un tabù. Deplhine che tutti pensano sposerà il giovane silente innamorato di lei ha sempre amato le donne, ma come vivere apertamente sessualità e gender in un universo ostile e chiuso che potrà solo metterla al bando?

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Ecco questa lotta di liberazione, femminista e di gender, Corsini la racconta in chiave di commedia, e le battute nel pubblico locarnese e i commenti ostili quando le due donne fanno l’amore confermano ancora una volta che oggi c’è molto da lottare, per rimanere al cinema il grido di protesta lanciato da Patricia Arquette la notte degli oscar e ripreso da molte sue colleghe hollywoodiane ne è solo un esempio. Così come vivere bene la sessualità in un epoca di recessione emozionale quale è questa non è scontato specie perché la dimensione collettiva che si viveva allora è stata distrutta. Quello che Corsini riesce a restituire anche in un eccesso di scrittura è la fatica della libertà, di una scelta, di un cambiamento importante della propria vita trovandone l’accordo collettivo e il sentimento sempre attuale – lo stesso giorno qualcuno mi posta su facebook una canzone di Manfredi, bellissima, e penso allo stesso film nel cinema italiano che gli anni Settanta deve sempre ridicolizzarli o ridurli al terrorismo.

E la trama del mondo e della realtà, resa attraverso esperienze singolari sembra essere uno dei motivi che attraversano, almeno finora, le scelte del festival. Vale, ad esempio, per uno dei primi titoli del concorso, Brat Dejan (Fratello Dejan) su cui torneremo perché il tema è complesso e delicato, che ha provocato reazioni critiche (su alcuni giornali locali) anche molto aspre. Il regista, Bakur Bakuradze (coproduzione Russia Serbia) torna alla guerra civile nella ex-Jugoslavia, a partire dal personaggio di un ex generale serbo ricercato internazionalmente per crimini di guerra. Possiamo pensare a figure reali concentrate in quella Dejan Stanic ora anziano e malandato, protetto dai suoi amici, finché i giochi e gli equilibri politici decidono di lasciarlo cadere. Potrebbe essere lui uno dei prossimi a essere scovato, come accade di tanto in tanto per compiacere l’opinione mondiale. Bakuradze non lo tratteggia come «il mostro» pure se gli inserti di finto archivio, e una strana piéce teatrale della guerra ci dicono bene del suo agire e ci riportano a quegli anni dimenticati da tutti almeno fuori dei tribunali.

La questione qui è quella della responsabilità, come cioè condurre una ricostruzione in uno stato dopo un conflitto, quanto i poteri di prima, economici, finanziari, politici, rimangono tali, e con loro il gioco di protezioni e silenzi. Valeva nella Germania dopo la seconda guerra o in Italia, e in modo diverso nei Paesi del Latino america dopo le dittature. Su questo il regista non arretra, al contrario rende evidente la distanza tra singolo colpevole e sistema. Qualcosa di ambiguamente assolutorio.