Lo scorso anno sulla Croisette ha vinto il premio del Certain Regard, e il suo protagonista, il cane Hagen – che a quanto dicono i titoli di coda è interpretato da due cani, Luc e Bondy – la Palma al miglior quattrozampe canino – strappata al meraviglioso Roxy godardiano del capolavoro Adieu au langage.
White God, col titolo che rimanda (un anagramma?) al White Dog, «il Cane bianco» fulleriano, dichiara da subito la sua metafora: si parla diesclusione, di marginalità, di classi nell’Europa/mondo attuali. E anzi la dimensione metaforica è talmente forte, e esibita, da rischiare a tratti di appesantire la narrazione.

 

 

Protagonisti sono una ragazzina di tredici anni, Lili, piccola musicista – suona la tromba nell’orchestra della scuola – e il suo cane Hagen. I due si adorano ma quando il governo ungherese impone una tassa sui cani meticci (meglio dire bastardi) il padre di lei, un tipo pieno di rancore verso il mondo intero, approfittando dell’assenza della madre con cui la ragazza vive, costinge Lili a abbandonare Hagen sull’autostrada. Pratica questa peraltro comune – anche senza editti metaforici – a tanti italiani (e forse non solo) prima delle vacanze, tutti coloro che pensano che un animale sia un accessorio usa&getta invece che una scelta di responsabilità.

 
Hagen scopre così la violenza delle strade, viene venduto, costretto ai combattimenti,cacciato, picchiato e infine catturato dai terribili e nazistoidi accalappiacani della città. Non siamo però in un film animalista, casomai «animale» visto che al centro dell’inquadratura progressivamente il posto degli umani (Lili esclusa) viene preso dagli animali, e il punto di vista sul mondo coincide quasi totalmente col loro sguardo. In una Budapest vuota, ammorbata, in cui si respira l’aria pesante di repressione – la Budapest dell’ultranazionalista Orban e delle sue leggi liberticide e razziste – i cani cominciano a organizzarsi. «Sono un esercito» gridano i militari chiamati per abbatterli. Guidati da Hagen si rivoltano, fuggono dal lager del canile, un branco urlante che vuole vendicarsi dei maltrattamenti subiti in una città sempre più confusa e terrorizzata a cui solo la piccola Lili si avvicina senza paura, veloce in bici (la sequenza iniziale che torna verso la fine) armata solo della sua tromba.

 
Mundruczo, quarantenne, diversi film alle spalle, molto coccolato dai festival internazionali mescola western, fantastico, gore, gli Uccelli hitchockiani, la Rapsodia ungherese (composta da Liszt per i moti dell’indipendenza ungherese) e la rivoluzione.

 
Cosa accadrà a Lili e a Hazen non lo riveliamo. Ma i film «di cani» (coi quali ho una certa difficoltà) permettono (appunto) una metafora della condizione umana più netta forse perché i cani fanno parte del paesaggio domestico e quotidiano nell’affetto e pure nel maltrattamento. I cani di Mundruczo sono umanizzati, un’umanizzazione che esprime la condizione di altri umani, tutti coloro cacciati, respinti perché diversi, perché poveri, messi ai margini, oppressi dall’autoritarismo che dilaga in Europa e, nello specifico, nel Paese postsovietico. Che si deve combattere ma senza nostalgie, anzi mantenendo la consapevolezza degli esiti negativi del comunismo.

 

 

Dice Mandruczo: «Il mio film critica l’Ungheria di una volta e quella del futuro, dove un’esigua minoranza domina su una massa più estesa. Questo sta diventando sempre più vero anche per l’Europa. Un gruppo dell’élite si riserva il diritto al potere mentre, come in un reality show politico, i politici sono star che noi decidiamo di eleggere o meno. Sono tendenze molto pericolose, un giorno le masse si ribelleranno». Come fa Hagen, e forse anche Lili, diversi ma uniti dalla stessa voglia di una libertà che è ancora da inventare.