A Redeyef non pioveva da 3 anni. Oggi è piovuto. Entro di corsa in un caffè con la giacca sulla testa, fuori diluvia, ordino un caffè e mi guardo intorno, stranamente nessuno bada a me questa mattina, la gente è serena, sorride e commenta la pioggia. Un buon motivo per starsene rintanati tutto il giorno nel caffè.

Bashir, 33 anni, diplomato in lingue e disoccupato, guarda perplesso fuori dalla finestra, ricorda bene l’ultima volta che ha piovuto così, era il 24 settembre 2009, l’anno della grande inondazione che uccise 23 persone. «La colpa è stata della Cpg – mi dice senza distogliere lo sguardo dalla finestra – la Compagnia dei Fosfati di Gafsa. Ha distrutto le nostre vite – continua Bashir -. Le montagne che una volta ci proteggevano sono diventate cumuli di polvere, le barriere naturali hanno ceduto sotto la forza del tritolo utilizzato per gli scavi».

La Cpg ha iniziato la sua attività in questa valle nel 1897, e ad oggi è la quinta estrattrice di fosfati al mondo, tra i primi come qualità e purezza. La Compagnia dei Fosfati di Gafsa esporta 8 milioni e mezzo di tonnellate l’anno, al prezzo di 700 dollari per tonnellata, praticamente da sola rappresenta un quinto dei profitti statali.

In questa zona la disoccupazione rasenta il 40%, cifra dovuta all’utilizzo delle macchine nelle miniere, che negli ultimi vent’anni hanno dimezzato di oltre il 50% l’organico, facendolo passare da 16.000 ad appena 5.000, con un salario base di 250 Dinari Tunisi (circa 120 euro).

La protesta sfocia nel sangue

Per decenni la miniera che sovrasta la cittadina di Redeyef si è occupata del trattamento “umido” del minerale, ossia il lavaggio, attività altamente inquinante principalmente per due fattori: primo per le montagne di fosfato in attesa del lavaggio, lasciate a cielo aperto in balia del vento del deserto; e secondo a causa dell’acqua di lavaggio, piena di impurità tossiche e sostanze radioattive quali cadmio e uranio che viene reimmessa nel territorio sotto forma di laghetti artificiali, inquinando così la falda sottostante.

Dal 2008 la fabbrica di lavaggio di Redeyef è ferma, ha smesso di funzionare dopo l’enorme protesta diventata famosa come «La rivolta di Gafsa», scoppiata all’indomani di un concorso indetto dalla Cpg per 80 posti di lavoro, che ha visto come vincitori amici e parenti degli alti ranghi della società.

La protesta, iniziata nel gennaio 2008 sfocia nel sangue il 6 giugno dello stesso anno. «La Rivoluzione Tunisina è cominciata qui – mi dicono un gruppo di ragazzi nel caffè -, prima di diventare dei Gelsomini la rivolta era dei Fosfati». In paese sono in molti che ci tengono a precisarlo. A quanto pare questa zona vanta un passato di resistenza, su queste stesse montagne, ora dilaniate dal tritolo, si sono nascosti gli storici partigiani che hanno combattuto i coloni francesi. Proprio qui, in un paese che dista 420 km da Tunisi e solamente 26 dall’Algeria, è stato scritto uno dei capitoli più importanti della nuova Tunisia.

Ieri ho visitato la casa di Hafnaoui Maghzoui, 22 anni, ex militare di leva, ucciso il 6 giugno 2008 da tre proiettili nei polmoni. Lo stesso giorno due proiettili hanno raggiunto Abdelkhalek Amaidi, 31 anni, operatore turistico a Djerba. Entrambi sono stati sparati alle spalle, mentre scappavano dalle cariche della polizia, in due zone diverse della città. Il 6 giugno 2008 Abdelkhalek è ferito gravemente, riverso a terra, immobile, sanguinante ma vivo. Suo fratello Chrif Amaidi mi racconta la loro corsa disperata all’ospedale di Redeyef e del cordone di polizia che pattugliava l’ingresso dell’ospedale, con il compito di impedire l’ingresso a tutti i feriti della rivolta. Allo stesso modo, per ordine di Ben Alì, tutti gli ospedali della regione di Gafsa vennero piantonati dai militari impedendo l’accesso ai feriti, che solo quel giorno furono 35. «Abbiamo dovuto portarlo a Tozeur a bordo di una macchina – mi dice rabbioso -, cento km con la testa di mio fratello tra le gambe, non sapevo se fosse ancora vivo oppure no».

Dopo tre mesi di agonia Abdelkhalek è morto. Nel settembre del 2008.

Il padre di Abelkhalek Amaidi mostra la foto del figlio ucciso negli scontri del 2008 / Foto Alessandro Tricarico
Il padre di Abelkhalek Amaidi mostra la foto del figlio ucciso negli scontri del 2008 / Foto Alessandro Tricarico

Abdelkhalek lavorava a Djerba, come operatore turistico. A differenza dei suoi amici lui un lavoro lo aveva trovato, era riuscito ad andare via da Redeyef, ma il caso ha voluto che in quei giorni si trovasse in paese per salutare la sua famiglia. Durante i tre anni successivi, fino alla caduta del regime, la polizia ha controllato tutti gli accessi alla città, non permettendo a giornalisti e fotografi di raggiungere gli abitanti di Redeyef. Alcuni video e poche fotografie di quei giorni vennero pubblicati su youtube e dailymotion, che da tempo erano oscurati dal regime, e quindi inaccessibili alla stragrande maggioranza della popolazione. I giornalisti che ne parlarono furono incarcerati e il controllo sulla stampa si fece più brutale e feroce. Molti attivisti furono arrestati e torturati. Gli abitanti di Redeyef vivevano nel terrore. Quest’azione di estrema durezza permise a Ben Alì di governare altri 3 anni, fino al famoso 14 gennaio 2011, il giorno della «Rivolta dei Gelsomini».

Fuori la pioggia non accena a diminuire, e il caffè continua a riempirsi di uomini di tutte le età che fumano e ridono e giocano a carte. La situazione non è molto diversa dai giorni di sole. Qui lavoro non ce n’è, l’unica soluzione per i più giovani è l’odiata Cpg, che costringe a ritmi di lavoro massacranti per pochi spiccioli, estraendo fosfati a ciclo continuo, tre gruppi per otto ore ognuno, 24 ore al giorno ogni giorno. La fine di ogni turno è scandita da una sirena antiaerea, impossibile non sentirla, che in nessuna dei suoi lamenti quotidiani interfrisce con il canto del muezzin, che riecheggia dal minareto della moschea.

Qui non siamo mica a Djerba

Ci raggiunge Mahfoud 35 anni, alto, snello e con due grandi occhi neri, mi sorride, i suoi denti sono marroni e logori a causa dell’acqua inquinata e delle polveri sottili che circolano nell’aria. È un attivista dell’Udc (Unione dei Laureati Disoccupati), mi racconta delle malattie che affliggono i paesi ricchi di fosfati, e in particolare la sua Redeyef: cancro ai polmoni, leucemia, calcoli renali, reumatismi e perdita dei denti. L’età media a stento raggiunge i 60 anni. «Eppure un modo per bonificare le acque reflue esiste – incalza -, inoltre potrebbe dare lavoro a molta gente. Invece la Cpg continua ad agire indisturbata, anche perché qui non esiste nessuna legge in materia. Da tempo chiediamo alla Cpg di contribuire con il 20% allo sviluppo del territorio, qui c’è bisogno di scuole, ospedali, strade, manca tutto, manca veramente tutto. Siamo costretti a comprare la verdura dalle regioni limitrofe perché qui non cresce niente, la terra è stata resa sterile. Non possiamo coltivare la nostra terra, capisci? Di chi è la colpa di tutto questo?».

L'impianto di lavaggio dei fosfati / Foto di Alessandro Tricarico
L’impianto di lavaggio dei fosfati / Foto di Alessandro Tricarico

«Ci stanno ammazzando tutti, e a nessuno importa niente. Qui non siamo a Tunisi o a Djerba, non ci sono turisti. Cosa vuoi che importi al governo di noi».

Mahfud abbassa lo sguardo sul suo caffè e spezzando nervosamente la zolletta di zucchero con la punta del cucchiaino aggiunge: «Ci stanno ammazzando tutti, e a nessuno importa niente. Qui non siamo a Tunisi o a Djerba, non ci sono turisti. Cosa vuoi che importi al governo di noi».

Guardo fuori, non piove più, il caffè ho finito di berlo da un pezzo. Mi affaccio fuori dalla porta del locale, l’aria ora è pulita e per un giorno la gente di Redeyef potrà respirare tranquilla, evitando che il vento del deserto inquini anche oggi la loro aria, soffiando sulle montagne di fosfato che da ormai troppi anni è fonte di vita e di morte per questa gente.