Cultura

La rivoluzione coltivata

La rivoluzione coltivataBonnie Ora Sherk "Boys Mowing Lawn at the farm"

Mostre Una rassegna al Pav di Torino mette in scena una botanica sovversiva. «Vegetation as a political agent», dal 30 maggio al 2 novembre

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 24 maggio 2014

Che cosa significa attribuire a una pianta un tempo storico? E, cioè, non solo un tempo biologico, ma anche sociale e politico? La vita sociale delle piante è ora al centro di un’indagine sul rapporto tra ecologia politica e pratiche artistiche, sviluppata nel contesto della mostra Vegetation as a Political Agent presso il Parco Arte Vivente-Pav di Torino, che si terrà dal 30 maggio al 31 dicembre.

Se è vero che le forme della disobbedienza sociale sono all’origine strettamente interconnesse alla piantagione coloniale, come una sorta di prototipo del conflitto destituente, perché non partire da un elemento apparentemente marginale come la pianta, per restituire una storia sociale a un ambito presunto spontaneo, come quello naturale? Perché non mettere a punto un metodo «archeologico» anche per la vegetazione, nel momento in cui questa si trova ancora una volta al centro della contesa tra nuove gerarchie tecnocratiche e altrettanto nuovi bisogni di vita e d’ambiente?

Giardini sovversivi

Le piante, contro la vecchia antinomia che opponeva natura e cultura, da sempre sono state caricate di un significato politico. Basti pensare al ruolo centrale giocato dalla botanica nella prima forma di globalizzazione economica nel XVII e XVIII secolo quando, attraverso le piantagioni coloniali e i mercati sul mare, si definirono sistemi di controllo e condizioni di espropriazione e sfruttamento nella lotta per il monopolio delle spezie. Ma, allo stesso tempo, forme migratorie delle specie, nuove fertilizzazioni e innesti.

Il grande dispositivo messo a punto nelle piantagioni coloniali, nel momento di consolidamento del progetto imperiale dell’Europa bianca tra Sei e Settecento, sarà reimportato in Occidente con l’inizio della modernità industriale, dove la specializzazione di unità di produzione delle monocolture, di unità abitativa e di unità standardizzata delle procedure lavorative, ritornerà nel modello della fabbrica fordista moderna. L’idea della città-giardino, per esempio, quale insediamento operaio non fa altro che tradire questa matrice spaziale, fuori dalle retoriche riformiste di Ebenezer Howard.

Inoltre, è sempre nel periodo coloniale che piante come la vaniglia, la canna da zucchero, la banana, la manioca, il caucciù, tra le altre, passano da curiosità naturali a fonti di accumulazione e di profitto economico. Ma è con le attuali condizioni biopolitiche che la vegetazione ritorna ad avere un forte ruolo dentro i processi di costruzione sociale. Di fatto, in tutta questa storia, le piante hanno assunto anche una funzione di eversione rispetto all’esercizio del potere. E tale funzione è quella che ci interessa.

La teorizzazione di un approccio ecosofico alla realtà da parte di Félix Guattari, fin dagli anni Ottanta, non è altro che una delle risposte possibili e anticipatorie al regime contemporaneo. Con le tre ecologie critiche sappiamo che non è più verosimile dissociare lo psichico dall’ambiente e questo dal sociale. Si interconnettono qui tre livelli di ecologia: il registro dell’ambiente, quello sociale e delle soggettività. Non è più possibile opporsi solo dall’esterno, ma è diventato più necessario che mai contrapporsi anche «sul piano di un’ecologia mentale» all’interno della vita quotidiana, a tutti i livelli del sociale.

In che modo, oggi, si esprimono le azioni di resistenza creativa? È ancora possibile intendere la produzione artistica come altro dai processi di mercificazione in corso? L’ecologia sociale è un percorso di fuoriuscita dal paradigma antropocentrico? Come può la vegetazione contribuire a un processo di de-programmazione: architettonico, sociale, economico? Il lavoro sull’ecosofia è radicalmente diverso dal concetto di «ecologia» messo all’opera nel nostro tempo e che appare, per alcuni, così innovativo. Oppure l’ecologia non è altro che una nuova fase di sviluppo delle forme del capitalismo attuale.

Proprio perché interamente giocato sul doppio registro di storia e attualità il progetto Vegetation as a political agent si articola su due aree simboliche del territorio torinese: da un lato, il Pav fondato da un artista come Piero Gilardi per essere un centro contemporaneo di sperimentazione con il vivente e il vegetale; dall’altro lato, l’Orto Botanico dell’Università di Torino, già attivo nella metà del Settecento come laboratorio universitario. Carlo Allioni, che lo reggeva, era in diretto contatto con il grande botanico Linneo da cui importava i sistemi di conoscenza e catalogazione delle piante. Il ruolo della botanica e quello della colonia in quel momento non possono essere dissociati dal grande progetto imperiale dell’uomo «bianco». Le due polarità risultano storicamente chiare: da un lato un paradigma scientifico e classificatorio, dall’altro quello che – con Guattari – potremmo definire «paradigma estetico».

Vegetation as a political agent sviluppa, sullo stesso piano, interventi artistici e architettonici, illustrazioni e campioni scientifici, documenti d’archivio, contributi letterari e filmici prodotti in una grande varietà di contesti culturali e sociali. All’interno e all’esterno del Pav sono indagati i rapporti tra agronomia e movimenti popolari nel film di Filipa César – che rivisita il paesaggio di lotte politiche della Guinea Bissau – e nei documenti relativi alla figura di Amilcar Cabral – agronomo e rivoluzionario guineense che portò la Guinea-Bissau e le isole di Capo Verde all’indipendenza dal Portogallo; il ruolo dell’attivismo verde attraverso la presenza di Mel King nel progetto di Nomeda e Gediminas Urbonas, i murales recenti di Emory Douglas – uno tra gli esponenti del Black Power americano – a difesa del proletariato rurale zapatista del Chiapas. Figure storiche come l’ungherese Imre Bukta che si definiva «artista agricoltore» e la californiana Bonnie Ora Sherk fondatrice nel ’74 a San Francisco della fattoria Crossroad Community (un centro comunitario, una scuola senza pareti, un teatro umano e animale, pensato per creare un modello di vita radicale a carattere ecologico) sono infine testimoni negli anni ’70 di forme pionieristiche del rapporto tra arte e agricoltura sotto le opposte polarità della Guerra Fredda.

Rifugi site specific

La mostra convoca anche forme di produzione sperimentale come assemblee aperte, impianti di colture vegetali, modelli di agricoltura urbana e strutture abitative temporanee che costituiscono le principali strategie d’intervento, seppur con modalità da definire di volta in volta. Dai campi di protesta tree sitting nel Regno Unito investigati da Adelita Husni-Bey al rivoluzionario sistema di riciclaggio dei rifiuti proposto dal pioniere George Chan, al centro della ricerca di Fernando García-Dory. Nella corte del Pav prendono forma due installazioni ambientali site-specific: gli architetti RozO (Philippe Zourgane & Séverine Roussel) realizzano la Sala Verde, una costruzione di tipo vernacolare che diventa un rifugio vegetale percorribile, realizzato con bambù e foglie di palma intrecciate in loco da un contadino delle Isole della Réunion, ospita al suo interno, una serie di documentazioni fotografiche sulle ex-colonie francesi del Vietnam e dell’Algeria.

La vegetazione è intesa come agente politico nei processi di controllo del territorio nel mondo coloniale e postcoloniale del Sud. Il collettivo americano Critical Art Ensemble propone Sterile field: una porzione di terreno, in parte ricavata da un lembo di strato erboso del parco del Pav, lavorata con il metodo roundup ready, un procedimento chimico di diserbo invasivo che, su lunga durata, distrugge la biodiversità.

La botanica degli «invasori»

Vegetation as a political agent solleva interrogativi sulla rivendicazione della soggettività creativa attraverso pratiche di ortocoltura, come nelle sperimentazioni di Ayreen Anastas & Rene Gabri con l’immissione nel mercato di semi biologici per il ri-equilibrio del suolo, o Claire Pentecost con una serie di cartoline postali sulla circolazione del mais transgenico in Messico. L’artista slovena Marjetica Potrc, da sempre impegnata in processi partecipativi, ha creato un orto comunitario auto-organizzato e un parco pubblico a Soweto in Sudafrica. Daniel Halter lavora con piante da fiore che si sono radicate nel paesaggio italiano ma che sono originarie del Sudafrica, proponendo così un storia di colonizzazione inversa dell’Europa da parte di «invasori» africani.

Tre sagome di pannocchie di mais in gommapiuma reggono uno striscione con la scritta «O.G.M. Free». Sono espressione di azioni e immaginari collettivi sui temi della rivoluzione verde trasferiti nelle maschere e nei costumi disegnati da Piero Gilardi e indossati nelle animazioni teatrali contro l’impiego di Ogm nelle coltivazioni di mais, a partire da quel lungo filone delle proteste di strada che coinvolge l’artista, già dalla fine degli anni Sessanta. «Ora serve una volontà politica, quindi soggettiva, per costringere il potere neoliberista a mettere in atto la conversione ecologica», sostiene Gilardi.

Anche la lotta No Tav, nel suo farsi carico di una creatività diffusa, lavora in una concreta prospettiva ecosofica mentre viene accusata di ecoterrorismo: basti pensare alla sentenza inammissibile per i quattro attivisti del cantiere di Chiomonte. Ancora una volta, dunque, dobbiamo confrontarci con il nostro diritto di dissentire e con la sua più totale negazione. Allora, dicevamo all’inizio: una volta c’erano le colonie e il potere coloniale…

 

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