Il controllo della stabilità politica sfugge completamente alle redini delle autorità del Bangladesh, dove un’enorme manifestazione lanciata dal gruppo Hefazat-e-Islam («Protettori dell’Islam») è sfociata in violenze e degenerazioni varie. Niente a che vedere, questa volta, con multinazionali e capi d’abbigliamento: si tratta del risultato di un conflitto che divora il paese dal 1971.

La data di nascita del Bangladesh coincide con la sua indipendenza dal Pakistan dopo una guerra da tre milioni di morti. Da allora, il collante civile del giovane stato ha fatto leva sull’orgoglio nazionalista e sul mito dei martiri per la libertà. Una soluzione che oggi non sembra bastare più.

Domenica 5 maggio, quindi, tremila veicoli in affitto trasportano una fiumana di manifestanti dello Hefazat-e-Islam nel centro di Dhaka. La protesta, inizialmente autorizzata, si protrae oltre i tempi consentiti dalle autorità, trasformandosi in guerriglia urbana: 15 esplosioni di bombe artigianali davanti alla sede centrale del partito di governo Awami League, 100 negozi e 50 veicoli in fiamme hanno indotto le forze dell’ordine ad intervenire con violenza inaudita.

Tra domenica e lunedì 6 maggio, diecimila unità fra polizia e paramilitari hanno disperso la folla con la forza. Tra manifestanti, forze dell’ordine e malcapitati di passaggio, il conteggio delle vittime è arrivato a 28, in quello che sarà ricordato come il conflitto più sanguinoso dai tempi della guerra d’indipendenza.

I protagonisti dei disordini sono sostenitori delle frange più estreme dell’Islam: una dozzina di organizzazioni fondamentaliste unite nel gruppo Hefazat-e-Islam per completare un’agenda di tredici obiettivi, fra cui una più severa legge contro la blasfemia, l’impiccagione per gli atei, un’educazione religiosa obbligatoria, una maggior segregazione dei sessi e il rifiuto delle politiche per l’emancipazione delle donne in quanto «contrarie all’Islam». Il gruppo, che controlla 25mila madrasse (scuole coraniche), è responsabile dell’assassinio il 16 febbraio del blogger Ahmed Rajib Halder, che invitava a boicottare istituzioni e aziende di proprietà di membri del partito filo-pakistano Jamaat-e-Islam.
Tutto è iniziato lo scorso febbraio, quando il tribunale speciale per i crimini di guerra internazionali ha condannato sette membri del Jamaat-e-Islami per il genocidio del 1971.

Il 5 febbraio, la condanna all’ergastolo del criminale di guerra Abdul Qader Mollah ha scatenato la protesta di piazza Shahbagh, portata avanti dal motto fashi chai, «lo vogliamo impiccato». Condotto da blogger, intellettuali, attivisti e membri della Dhaka University, il movimento per la tutela della democrazia laica chiede che il Jamaat-e-Islam venga messo fuori legge in quanto esplicitamente contrario all’esistenza di un Bangladesh indipendente e secolare.

All’inasprimento delle richieste di secolarismo è coincisa una sempre maggior mobilitazione dell’estremismo musulmano: nei primi mesi del 2013 sono stati oltre 50 i templi distrutti e circa 1500 le abitazioni hindu attaccate dalle squadracce estremiste.
Il confronto delle sfere civili del Bangladesh è in realtà una battaglia fra due Islam.

La crociata del secolarismo portata avanti dai moderati, inerente, per premesse storiche, al sincretismo del Bengala, si scontra con la graduale estremizzazione dell’Islam nell’Asia meridionale. Nell’impotenza del governo di Dhaka, le classi disagiate diventano carne da macello in una guerra ideologica della quale, a oltre 40 anni dall’indipendenza, ancora non si scorge la fine.