Il 24 settembre 2009 Nelly Arcan, pseudonimo di Isabelle Fortier, si toglieva la vita nel suo appartamento nel quartier du Plateau Mont-Royal di Montréal. A dieci anni dalla sua morte, solo pochi giorni fa, presso l’Ehess di Parigi ha avuto luogo il primo colloquio europeo sulla sua opera (Re)découvrir Nelly Arcan. Per l’occasione Les édition du Seuil hanno presentato in anteprima la riedizione di Putain (2001), prima e più celebre opera di Arcan, che questa volta reca una ricca posfazione ad opera di Lilas Bass, Isabelle Boisclair, Lucile Dumont, Catherine Parent e Lori Saint-Martin. Nonostante il testo sia stato seguito da altri cinque libri (di cui l’ultimo uscito postumo), la presenza di Nelly Arcan sulla scena letteraria francofona resta inseparabile dall’accoglienza ricevuta alla pubblicazione del primo suo libro. Il suo inquadramento mediatico ha infatti influenzato la ricezione del testo e dell’intera opera arcaniana.

Lo scandalo suscitato dalla coincidenza tra l’io narrante e la figura autoriale nasce dalla natura delle vicende che il libro racconta, ovvero l’esperienza della prostituzione; questo stesso filtro scandalistico è responsabile del tentativo d’evacuazione del significato letterario, filosofico, politico e sociale di quest’opera e delle seguenti. Il tentativo di marginalizzazione dell’opera di Arcan è cominciato dallo svuotamento del carattere collerico della sua opera. Svuotamento della portata sociopolitica dei suoi testi e la loro qualità letteraria, sia che si tratti di collocare le sue prese di posizione nel quadro dei femminismi degli anni Novanta, quelli della terza ondata, sia che si tratti di riconoscere la legittimità letteraria del genere dell’autofinzione.

Ed è proprio cominciando dai meccanismi del dispositivo autofinzionale che interpelliamo Isabelle Boisclair, docente di Etudes littéraires et culturelles all’Université de Sherbrooke in Québec. Nel 2017 Isabelle Boisclair, le cui ricerche si concentrano sulla questione dell’identità di genere nei testi letterari, ha curato, insieme a Christina Chung, Joëlle Papilllon et Karine Rosso una raccolta di studi sull’opera di Nelly Arcan intitolata Nelly Arcan. Trajectoires fulgurantes (Remue-ménage). In italiano Gremese ha pubblicato i primi due romanzi della scrittrice canadese, i due testi d’autofinzione di Arcan, Puttana e Folle, nelle traduzioni di Carlo Floris e di Micol Bertolazzi, rispettivamente nel 2014 e nel 2013.

Nell’opera di Nelly Arcan il processo autofinzionale è più che evidente, a partire dallo pseudonimo stesso scelto dalla scrittrice. L’ «io» è messo in scena dall’interno, dall’esterno e accanto alla realtà biografica della scrittrice. Come si instaura e come evolve nella scrittura il rapporto tra autobiografia e forma romanzesca? Quale è la relazione tra alienazione e agentività?
Direi che per entrare nell’opera di Nelly Arcan sia necessario uscire dalla dicotomia tra autobiografia e forma romanzesca. Per risolvere questa dicotomia una soluzione possibile è affermare che non si tratta di un rapporto tra le due forme ma il riassunto dell’una nell’altra. Il genere romanzesco e quello autobiografico si riassumono quindi nella pratica autofinzionale arcaniana. L’io di Nelly Arcan è messo in scena dalla voce autoriale su una sorta di frontiera testuale, in cui la vita si presta a divenire un espediente per nutrire l’immaginazione – la finzionalizzazione. Possiamo reperire questa traiettoria nelle prime due opere arcaniane, Putaine e Folle.
La relazione tra alienazione e agentività invece dimora nell’intera sua produzione, a mio parere essa rappresenta uno dei fulcri portanti per la comprensione dell’opera di Arcan. L’alienazione e l’agentività si situano in una relazione di compresenza e interdipendenza: la rivolta si avvera nell’alienazione e grazie a essa; l’agentività si rivela nel desiderio di testimoniare questo stato di alienazione. Partendo da questo assunto di interdipendenza sarebbe da rivedere anche la pratica critica, moraleggiante, che ha identificato l’alienazione arcaniana con il suo passato da prostituta. L’alienazione femminile può stare anche altrove, anche nella rassicurante abitudine della vita domestica.

I media hanno frainteso il patto autofinzionale di Arcan: riducendola alla sola immagine di giovane scrittrice sulfurea e provocante inverando quello che lei stessa denunciava nei suoi romanzi. Quale è la portata misogina di questo fraintendimento volontario e quanto resta secondo lei di questa sorta di automatismo nel presente letterario?
Apprezzo la scelta da parte sua di avere utilizzato il termine «misoginia», perché anche se può sembrare severo è davvero di questo che si tratta. La portata misogina nel mondo dei media resta, integrata e apparentemente invisibile. Probabilmente oggi in Québec l’intervista televisiva in cui Arcan venne stigmatizzata e ridicolizzata (la scrittrice ne parla dettagliatamente in La honte, testo pubblicato nella raccolta Burqa de chair nel 2011) non avrebbe più luogo, e non solo per il seguito di polemiche che ne sono nate. I tempi stanno cambiando, tuttavia una porzione del mondo editoriale e critico continua a restare volontariamente cieco perché, in quella parte, è assente e rifiutata ogni forma di decostruzione di quelle categorie critiche per cui una donna scrittrice viene identificata con la sua apparenza fisica. L’opera passa in secondo piano e ogni forma di interlocuzione con essa risulta accessoria.

Le personagge descritte da Nelly Arcan sembrano incapaci di percepirsi – in quanto corpi viventi – e di esistere indipendentemente dallo sguardo dell’altro. Il ruolo dello sguardo maschile nei confronti dei corpi femminili descritti le sembra evolvere? Come si posiziona invece quello delle altre donne?
Il problema sta altrove; è proprio nello strappo tra la capacità di vedersi e l’incapacità di essere viste la grandezza della sua opera. Si tratta dell’incapacità degli occhi di chi guarda e non di chi è guardato e sa guardarsi. E in questo caso si ritorna al rapporto tra alienazione e agentività: lo sguardo dell’altro, che in Arcan è quello che non permette di esprimersi aldilà del corpo, è uno sguardo contro cui le donne e i personaggi femminili di Arcan si ribellano senza però riuscire la rivolta. Non ci sono «sguardi alleati» nella letteratura arcaniana, né maschili né femminili.

In «Folle» (2004) la scrittrice descrive il desiderio nei confronti dell’altro come qualcosa di resistente fintanto che dimora nel campo dell’irrealizzabile e dell’assenza. Quanto la psicoanalisi ha influenzato una tale posizione?
La psicoanalisi lacaniana in particolare ha esercitato un’azione determinante sulla sua scrittura. Nelle sue opere se ne trova traccia, ampiamente, e in sede critica molto è stato scritto in tal senso. In termini generali tengo a segnalare gli ottimi scritti di Sabine Prokhoris, che ha studiato le questioni legate al genere e il peso della componente analitica in letteratura.

In «Burqa de chair», testo postumo del 2011, Nelly Arcan denunciava il peso delle ingiunzioni sociali sui corpi delle donne occidentali e il carico della condanna a essere e a definirsi secondo l’asse d’aspettativa del desiderio maschile. Quali le sembrano i contorni attuali di questo asse rispetto a dieci anni fa? Quale è il peso di questa denuncia in letteratura?
Non credo che l’asse d’aspettativa del desiderio maschile sia cambiato rispetto a dieci anni fa. Sicuramente invece sono aumentate le occasioni in cui le donne possono tentare di liberarsi dalle ingiunzioni sociali che pesano sui loro corpi. Burqa de chair è una raccolta di testi inediti che Arcan scrisse negli anni e che vennero pubblicati due anni dopo la sua morte (con l’introduzione di Nancy Huston, ndr); essi parlano di questo peso e del seguito di sofferenza che ne deriva.
Io constato, e lo dico con molta soddisfazione, che la diffusione della parola delle donne è in crescita esponenziale. Posso fare riferimento a un ambito che mi è vicino: il mondo dell’istruzione. Quarant’anni fa in Québec non erano numerosi i corsi universitari riguardanti la scrittura delle donne. Col tempo, grazie anche alla diffusione che si trasmette tramite il contagio fruttuoso della parola tra studenti e il mondo che sta fuori all’università, i corsi sono aumentati e la «contaminazione» è entrata, poi uscita e rientrata ancora, in un passaggio dall’interno all’esterno dell’istituzione e viceversa.
Credo poi che il ruolo delle lettrici della letteratura scritta dalle donne sia importantissimo e che rappresenti il tramite attraverso cui la parola ribelle è letta, ripetuta, ascoltata e diffusa. La liberazione della parola delle donne in rivolta ha bisogno che essa si diffonda, e la letteratura, parimenti al movimento #MeToo, ha dato e sta dando occasioni di produrre e liberare questo tipo di parola.