«Parlare di tensione tra Stati Uniti e Arabia saudita è esagerato, al massimo tra le due parti ci sono differenze, niente di più, riguardo le vicende egiziane». Mouin Rabbani, analista arabo tra i più noti, spiega in questo modo la rapidità con la quale Riyadh ha espresso pieno sostegno politico, diplomatico ed economico all’Egitto a trazione militare emerso dal golpe del 3 luglio che ha deposto il capo dello stato ed esponente dei Fratelli Musulmani, Mohammed Morsi. «Il colpo di stato dei militari egiziani è l’occasione che la monarchia saudita aspettava da tempo – aggiunge Rabbani -, la Fratellanza ha sempre sfidato il ruolo di ‘Guardiani della Mecca e Medina’ che i Saud si attribuiscono e la recente ascesa dei Fratelli in Nordafrica e Medio Oriente preoccupa parecchio i sauditi».

Per l’analista arabo la decisione, immediata, di Riyadh di offrire 12 miliardi di dollari all’Egitto, in aiuti e investimenti, non è tanto un tentativo di sostituirsi agli Stati Uniti e all’Europa (che minacciano il congelamento degli aiuti al Cairo) quanto «un passo per evitare che le esitazioni dei governi occidentali finiscano per indebolire l’Esercito e il  governo ad interim egiziano proprio nelle fasi in cui devono affrontare la reazione dei Fratelli Musulmani (al golpe)». Riyadh è tornata con prepotenza sulla scena regionale da quando la monarchia, anziana e ammalata (ieri si è spento un altro principe), ha dato carta bianca al capo dell’intelligence, lo spregiudicato Bandar bin Sultan. Quest’ultimo ha strappato l’iniziativa anti Bashar Assad a Turchia e Qatar, ha rilanciato l’influenza saudita nella politica interna libanese e ha provato, per ora senza successo, a convincere i russi ad abbandonare Damasco. Il “principe delle spie” Bandar non ha mancato, secondo indiscrezioni, anche di rivolgere critiche all’Amministrazione Obama che nell’ascesa della Fratellanza aveva trovato un alleato capace di sostituire le vecchie leadership arabe senza mettere in discussione gli interessi vitali di Washington e di Israele. «Riyadh non sta adottando una politica di opposizione a Usa e Israele, anzi – sottolinea Mouin Rabbani -, l’Arabia saudita era e resta una stretta alleata degli americani e degli occidentali ma vuole che gli Stati Uniti non offrano riconoscimenti ai Fratelli Musulmani che minacciano i Saud».

D’altronde è azzardato anche prevedere che gli Stati Uniti adotteranno una vera politica di sanzioni come, in parte, ha fatto ieri l’Unione europea che sospenderà la fornitura di equipaggiamenti per la sicurezza e di armi all’Egitto. Obama ha annullato la consegna al Cairo di alcuni aerei F-16 e ha sospeso le manovre militari tra i due Paesi. Ha anche riunito il Consiglio di sicurezza nazionale per discutere la strategia verso il Cairo e sono circolate notizie, poi smentite, di un congelamento dell’aiuto annuale da 1,3 miliardi di dollari ai militari egiziani. Ciò nonostante le decisioni che saranno prese non metteranno in discussione l’alleanza tra il Pentagono e le Forze armate egiziane. Perchè Israele considera quell’alleanza una garanzia per il rispetto del Trattato di Camp David e per la sicurezza della sua frontiera meridionale. E perchè l’Egitto è strategicamente troppo importante per gli interessi statunitensi in Medio Oriente.

Due giorni fa Usa Today sottolineava la dipendenza americana dall’Egitto per il trasferimento di armi ed equipaggiamenti alle Forze Armate Usa in Afghanistan e nell’area del Golfo. «L’Egitto è una roccaforte per la presenza militare americana in Medio Oriente», spiega James Phillips, un analista della “Heritage Foundation”. Lo scorso anno sono passati per lo spazio aereo egiziano oltre 2000 aerei militari da trasporto e da combattimento degli Stati Uniti. Tra 45 navi da guerra della V Flotta, di base in Bahrain (quindi di fronte all’Iran), sono transitate per l’affollato Canale di Suez, con diritto di precedenza assoluta. L’alleanza con il Cairo resta centrale se si considerano i tagli alla difesa americana in una rinnovata fase di tensione tra Usa e Iran. L’eventuale chiusura di Suez al transito delle navi da guerra statunitensi perciò avrebbe conseguenze enormi. Gli americani lo sanno e non sorprende che per tutta la durata della crisi egiziana, anche durante la repressione feroce dei manifestanti avvenuta la scorsa settimana, il segretario alla difesa Chuck Hagel e il Pentagono siano rimasti in stretto contatto con i comandi militari egiziani.

«Gli interessi strategici avranno il sopravvento su qualsiasi decisione volta a difendere democrazia e diritti in Egitto. Alla fine i sauditi da un lato e i militari egiziani dall’altro non avranno difficoltà a convincere gli americani», prevede Mouin Rabbani.