Il principio è lo stesso di molte teorie del complotto: negare i fatti e costruire verità alternative. E non mancano gli espedienti retorici: prendere le parole del «nemico» e farle proprie. Così, ad esempio, a San Benedetto del Tronto, lo scorso agosto, l’amministrazione comunale ha fatto installare una panchina «inclusiva» per contrastare la violenza «oltre il genere». Così recita la targa: «Nella speranza che uomini e donne si alleino per favorire la cultura del rispetto e aiutare le persone maltrattanti e maltrattate ad uscire dal circuito della violenza». L’idea è dell’assessora alle Pari Opportunità Antonella Baiocchi (Fratelli d’Italia), psicoterapeuta di professione, fiera coniatrice del termine «debolicidio» (da contrapporre a «femminicidio») e già protagonista nell’invenzione del primo prototipo di centro antiviolenza per uomini.

UNA STORIELLA paradossale e provocatoria che si incunea nella questione complessa dei finanziamenti ai centri antiviolenza per le donne vittime di violenza maschile, attivi da un trentennio su tutto il territorio nazionale ma normati soltanto attraverso normative regionali, fatti salvi alcuni passaggi nella legge numero 38 del 2009 (quella sullo stalking) che ha istituito un numero verde di pubblica utilità per tutelare le vittime di atti persecutori e la numero 119 del 2013 (femminicidio) che ha istituito alcuni fondi statali (sempre da trasferire alle regioni, che poi li gestiscono in sostanziale autonomia). Il percorso, va da sé, è sempre accidentato. Dei 3 milioni di euro stanziati dal Dl «Cura Italia» per la sanificazione, l’acquisto di mascherine e gel disinfettante alle case rifugio, solo l’un percento è effettivamente arrivato a destinazione.

Per quello che riguarda invece gli stanziamenti del 2020 per i Cav e le Case Rifugio, dopo un’odissea lunga sette mesi per trasferire i soldi dal Dipartimento Pari Opportunità alle Regioni, a metà ottobre risultava effettivamente erogato appena il 2 percento del totale, e solo in Liguria e in Umbria. «Le politiche antiviolenza continuano ad essere isolate e frammentarie – dice Katia Scannavini, vicesegretaria generale di Action Aid -, lo vediamo anche nel Pnrr, dove i grandi assenti sono la prevenzione e il contrasto alla violenza contro le donne».

Questa situazione corre parallela a iniziative che, nei fatti, spingono nella direzione opposta. A fine ottobre, nell’aula magna del polo didattico dell’ospedale di Cona, in provincia di Ferrara, è andato in scena il convegno «La violenza oltre il genere», con la partecipazione di dirigenti e personale sanitario e patrocinio dell’Università degli studi di Ferrara.

QUALCHE GIORNO PRIMA, a Perugia, in consiglio comunale approda una proposta per contrastare la violenza contro le donne attraverso benefit, gadget, corsi prematrimoniali e viaggi vacanze. Il grido di battaglia è eloquente: «La violenza non si contrasta con altra violenza. Con le denunce si alimenta altro odio». L’opposizione ha rumoreggiato, anche se con pochi effetti. «Questa proposta è la negazione della violenza sulle donne», ha detto la consigliera di parità Sara Pasquino.

In tutta Italia, poi, non si contano le iniziative delle associazioni dei padri separati, che sempre più spesso approdano nelle aule istituzionali con la complicità di esponenti della Lega e di Fratelli d’Italia. A Bergamo, infatti, è proprio il Carroccio a proporre l’istituzione di una «Casa dei padri separati», ovvero un complesso abitativo da dare in comodato d’uso gratuito per gli uomini. Il problema abitativo esiste, ma anche qui vengono rovesciate le priorità. I dati dell’Istat sono piuttosto chiari, in questo senso: il tasso di occupazione femminile tra le separate è del 59.2% contro l’82% dei separati, e solo il 20% delle donne riceve per sé l’assegno di mantenimento dal proprio ex compagno.

«LE ISTANZE dei padri separati spesso vengono contrapposte o comunque messe in competizione con i Cav – commenta Laura Gaspari dell’associazione On the road, che opera al confine tra le Marche e l’Abruzzo –, ma non c’entrano assolutamente nulla. La verità è che in una coppia il potere economico lo ha quasi sempre il marito. Non si può parlare di discriminazione quando si cerca di aiutare le donne, in questi casi. E comunque, noi dei centri antiviolenza per operare dobbiamo sottostare a una serie di legge, per queste altre associazioni non è così».