Sappiamo dal 1949 che fu accessibile a Dante il Libro della Scala (Kitab-al-Miraj, letteralmente «libro dell’ascensione»), narrazione del viaggio nell’aldilà di Maometto diffusa dalla Spagna – dove fu tradotta in castigliano, quindi in francese e in latino dal toscano Bonaventura da Siena – in Francia e Italia a partire dal 1270 circa: lo cita Fazio degli Uberti nel Dittamondo, poema d’imitazione dantesca. Da allora, essendo chiara l’accessibilità del testo, si sono cercate sue tracce nella Commedia dantesca, ma non si è trovato nulla di convincente.
Il domenicale del Sole 24ore ha pubblicato una settimana fa un articolo di Corrado Bologna, tanto sensazionalistico («Arriva la prova che nella biblioteca frequentata dal poeta», cioè Dante, «c’era una copia del viaggio nell’aldilà del profeta dell’Islam») quanto privo di sostanza scientifica, in cui, citata in apertura una nota formula warburghiana («il buon Dio sta nel dettaglio), si inneggia alla forza rivoluzionaria del seguente particolare: «Oggi, scoprendo che i domenicani bolognesi possedevano il Libro della Scala, la questione va riaperta con un livello di compatibilità molto più alto».

Gli indizi mancanti

Di quale scoperta si sta parlando? Il dettaglio rivelatore è tratto dal recentissimo libro di Luciano Gargan, Dante, la sua biblioteca e lo Studio di Bologna (Padova, Antenore, 2014), ma, come lo stesso Bologna riconosce, era già noto: un documento del 1312 testimonia l’acquisizione del Libro della Scala al Convento bolognese di San Domenico. La forza innovativa del volume di Gargan starebbe, secondo Bologna, nel mettere questo particolare in rapporto con Dante: peccato che sia superfluo, visto che l’accessibilità dell’opera era assodata.
Si potrebbe credere, a questo punto, che l’articolo serva almeno a svelarci un Dante intento in lunghe giornate di studio nelle biblioteche conventuali e universitarie di Bologna. Di «biblioteche frequentate dal poeta» si parla spericolatamente nell’occhiello dell’articolo, e con maggior prudenza nel testo – «in una delle biblioteche in cui è verosimile che Dante abbia studiato» – forse in base alla seguente, spericolatissima affermazione di Gargan: Dante «si trasferì a Bologna intorno al 1292 con il fermo proposito di dedicarsi allo studio della filosofia».
Il «trasferimento» dantesco a Bologna decretato da Gargan non è sorretto da alcuna prova; non possediamo, inoltre, alcun documento in merito al fatto che il poeta frequentasse biblioteche. L’Alighieri dice nel Convivio di aver studiato filosofia dopo la morte di Beatrice «nelle scuole dei filosofanti», e questo è il solo dato di cui disponiamo. Tali scuole sono identificabili anzitutto con i due Studi conventuali di Firenze, Santa Croce e Santa Maria Novella e, solo in seconda istanza, con analoghe istituzioni con le quali Dante poté venire in contatto nei suoi spostamenti. Questi bacini librari devono essere studiati per ricostruire la circolazione dei libri nell’Italia duecentesca: per questo, il lavoro svolto da Gargan è utile (come lo è stato lo studio della biblioteca di Santa Maria Novella e come lo sarà quello dei volumi di Santa Croce), sebbene lo studioso inquini i dati certi con illazioni.
Le «biblioteche frequentate da Dante» non esistono; la «prova» del contatto tra il poeta e il Libro della Scala è ininfluente e già nota. Il dettaglio davvero rilevante è questo: la fragilità culturale di cui il mondo contemporaneo è vittima, che il giornalismo culturale non contrasta, ma sfrutta.
La Commedia appartiene tecnicamente al genere della cosiddetta letteratura visionaria, consistente nella rivelazione, avuta per visionem, dei regni oltremondani. Fermo restando il valore delle fonti esplicite – Dante dice nell’Inferno che i due modelli del suo viaggio sono l’Eneide (la discesa agl’inferi narrata in Aen. VI) e la Bibbia (II Cor, il rapimento di san Paolo al terzo cielo) – tutta l’abbondante produzione visionaria tardo antica e medioevale – dalla Navigatio Sancti Berendani, irlandese, alla Visio Sancti Pauli, di provenienza siriaca – è potenzialmente indiziata di influenza sul testo dantesco: l’unico modo per appurare di volta in volta questa ipotesi è la valutazione delle coincidenze testuali e culturali.
Ora, quali sono i contenuti del Libro della Scala affini a quelli danteschi? Corrado Bologna ripropone, sulla base di un dettaglio ininfluente – il manoscritto presente a Bologna di un’opera già notoriamente accessibile a Dante – un intero universo di ipotesi che gli studi hanno dimostrato inesatte, generiche e sbagliate. Primo: un «possibile influsso sulla metafisica della luce dantesca» da parte del libro della Scala, proposto a suo tempo da Maria Corti. Quando i contributi di filosofia dantesca di Corti (Dante a un nuovo crocevia, 1981; La felicità mentale, 1983) uscirono, Alfonso Maierù, storico della filosofia medioevale, dimostrò che la studiosa aveva una conoscenza superficialissima del pensiero medioevale: nelle sue pagine, risultava livellato sulle costanti, piuttosto che individuato in varianti specifiche, e inoltre deformato da pesanti errori (valgano per tutti quelli relativi alla filologia dell’Aristotele latino in La felicità mentale p. 98 ss.).
Il pensiero medioevale concepisce se stesso anzitutto come commento di pochi testi del passato, sacri e profani (la Bibbia, buona parte del corpus aristotelico, l’Eneide virgiliana, e poco altro). Le opere medioevali sono dunque sottilissime variazioni su temi costanti, e il dettaglio significativo risiede appunto nell’aspetto di tale variazione.
Per dimostrare l’assunzione dantesca di queste fonti bisogna individuare il dettaglio giusto: per intenderci, non il fatto che Dante definisca Dio come «colui che è», formula biblica variata in molti modi, ma il fatto che lo rappresenti come «gran mar dell’essere», variazione della definizione biblica introdotta da un Padre greco, Gregorio di Nazianzo (pelagos ousias, ‘mare di essere’) giunta all’Occidente per via dossografica (cioè nella compilazione De fide orthodoxa di Giovanni Damasceno, presente, tanto per restare al gioco delle biblioteche possibili, in quella duecentesca di Santa Croce a Firenze).
Ora, in merito alle convergenze tra Dante e il Libro della Scala sul tema della luce divina, un recente studio (Marco Ariani, Lux inaccessibilis. Metafore e teologia della luce nel Paradiso di Dante, Aracne, 2010) conferma – confronti testuali alla mano – che le coincidenze sono nulle, o talmente generiche da non costituire un tratto congiuntivo specifico.
Anche in merito a un secondo «dettaglio» relativo a libri bolognesi – pure questo già noto e solo ripreso da Gargan – che documenta la presenza in città di opere di Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia, Corrado Bologna rilancia la ricostruzione delle fonti filosofiche dantesche proposta da Maria Corti» (cioè l’ipotesi che «Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia (…) fossero stati studiati direttamente da Dante») ma ancora una volta la possibilità espressa da Gargan («l’incontro tra Dante e l’averrosimo latino poté avvenire nella facoltà delle arti di Bologna») è il dettaglio sbagliato, perché, secondo la vecchia regola scolastica, a posse ad esse non datur illatio.
Per passare dalla possibilità alla realtà bisogna provare punti di contato reali tra il testo dantesco e i testi di questi filosofi: ma vale, anche qua, la dimostrazione di inconsistenza delle supposte affinità operata da Alfonso Maierù.

Sindrome Dan Brown

Sostituire al dettaglio vero – testuale e dottrinale, atto a provare il rapporto dantesco con le fonti – quello simbolico del manoscritto ritrovato – il Libro della Scala posseduto dal tal convento o il Boezio di Dacia posseduto dal talaltro maestro universitario – vuol dire fare della cultura umanistica la provincia povera del romanzo fantasy alla Dan Brown.
L’esaltazione del dato generico, inerte e non interpretato che, in quanto aspecifico, si può cucinare in qualunque salsa e che alimenta un certo giornalismo culturale (una specie di nuova sofistica che permette di dire qualsiasi cosa, poiché l’oggetto del discorso non libera contenuti specifici e non implica alcuna conclusione), è oggi paradossalmente favorito dall’assimilazione della ricerca umanistica ai modi e alla forme di quella scientifica: per ottenere finanziamenti, si costruiscono giganteschi e spesso superflui progetti di digitalizzazione, conservazione, copia di documenti.
Diciamo una volta per tutte che questo genere di progetti non ha nulla a che vedere con la sostanza della ricerca, la quale è e resta un’ermeneutica del dato. Il cardine epistemologico dello studio dei testi consiste nella comprensione di forme e contenuti che essi veicolano, nella loro contestualizzazione storica, e quindi nella riflessione critica sulla concezione dell’uomo e del cosmo che testi e contesti esprimono: l’integrazione di questi tre livelli è implicata in un’opera davvero innovativa come, per fare un esempio, i Greci e l’irrazionale di Eric Dodds (1951).
La metà dei soldi che le università destinano a progetti collettivi dovrebbe essere trasformata in un semplice fondo di spese correnti dato ad ogni studioso per fare ricerca, poter andare in trasferta in biblioteche lontane e individuare davvero, ragionando, il dettaglio significativo su cui costruire l’ipotesi ermeneutica che chiamiamo storia della letteratura o storia del pensiero.