Restano ancora due incendi da spegnere, a Milas e Koycegiz, nel sud della Turchia, il luogo da cui le fiamme sono partite, accendendo le foreste e rendendo di fatto impossibile un intervento via terra. Lo ha annunciato ieri il ministro dell’agricoltura Pakdemirli in un tweet, lodando gli eroi delle foreste. Ma resta anche una devastazione senza precedenti e seri strascichi politici.

Il bilancio di due settimane di inferno è di 200 incendi in 33 province del sud e del sud-ovest del paese, 13mila ettari di bosco ridotti in cenere, otto vittime e perdite non quantificabili per la fauna locale e le greggi. Solo nella provincia meridionale di Antalya le due settimane di roghi hanno danneggiato oltre 3.200 edifici.

Tra le aree più colpite quelle della villeggiatura sul Mar Egeo, con turisti in fuga dalle fiamme via mare e una pioggia di disdette tra chi non era ancora arrivato a destinazione. Ma a uscirne devastata è soprattutto l’agricoltura: migliaia le terre, le serre, le fattorie, i magazzini distrutti dagli incendi.

La scorsa settimana si è temuto anche per la centrale termoelettrica di Kemerkoy, blandita dalle fiamme: le autorità locali hanno assicurato di aver rimosso le sostanze chimiche esplosive, ma restava il timore per le migliaia di tonnellate di carbone presenti.

E alla fine le fiamme sono arrivate fino ad Ankara. A esserne circondato è il presidente Erdogan, sotto tiro di chi ritiene la sua risposta tardiva e chi punta il dito sull’ondata di privatizzazioni che negli ultimi anni ha ingurgitato anche il sistema dei soccorsi. Il governo ha risposto al solito modo: imbavagliando la stampa e incolpando il Pkk.

Numerose le segnalazioni dei media nazionali indipendenti e delle agenzie internazionali (dalla Reuters all’Afp), a cui la polizia ha impedito di coprire il vastissimo fronte degli incendi: censurati dal Consiglio della Radio e la Televisione che non ha concesso accrediti e ha minacciato sanzioni (la scusa: «La copertura potrebbe creare paura e ansia nel pubblico») e bloccati dai checkpoint della gendarmeria su ordine del ministero dell’interno nelle strade che conducevano ai fronti di fuoco. Non tutti: i giornalisti dei media governativi e filo-governativi sono passati.

L’altro fronte è quello tipico della narrazione al tempo di Erdogan: incolpare qualcun altro. Fin dai primi giorni, il presidente ha puntato il dito contro il Pkk, accusato di aver appiccato gli incendi. Lo ha fatto pubblicamente, più volte, provocando reazioni: in molte cittadine del sud si sono formate ronde armate di vigilanti, convinti di dover pattugliare le strade e di poter fermare auto e chiedere carte d’identità alla caccia di combattenti curdi, mentre sui social media montava la rabbia verso «i terroristi».

A peggiorare la situazione è stata l’apparizione dello sconosciuto gruppo «I bambini del fuoco», che millantando appartenenza al Pkk ha rivendicato gli incendi. Da parte sua il Pkk, attraverso il Kck (ombrello di organizzazioni curde che si rifa alla teorizzazione del confederalismo democratico) ha smentito qualsiasi responsabilità e contro-accusato il governo per l’assenza di interventi a tutela dell’ambiente.

Non esistono ovviamente prove a conferma delle accuse di Erdogan. Ma tanto basta a distogliere l’attenzione dalle politiche governative. A partire dall’assenza di un piano di emergenza e di una seria politica per fronteggiare i cambiamenti climatici, per proseguire con l’avvio della privatizzazione del settore dello spegnimento degli incendi, che sta tagliando fuori la Taa (Associazione aeronautica turca), in passato responsabile della gestione dei canadair.

Erdogan ha ordinato di lasciarli a terra definendoli inutilizzabili perché in cattive condizioni e ha preferito affittare tre aerei russi, per 23 milioni di dollari. La settimana scorsa lo ha candidamente ammesso il ministro Pakdemirli: la Turchia non ha aerei anti-incendio.