Louise Richardson, Autoritratto

Che la vulnerabilità sia la questione da ripensare nella nostra epoca è un suggerimento da prendere in seria considerazione. Non solo perché è la temperatura di un presente trafitto e a tratti indecifrabile, bensì perché si tratterebbe di considerare e discutere una risorsa relazionale e quindi politica primaria, spesso invece trascurata o liquidata con faciloneria. Quella parola, la vulnerabilità, che ha nel suo etimo la ferita e l’esposizione, è anzitutto un’esperienza che comincia nell’essere almeno in due. Riconoscersi vulnerabili non significa infatti confessare la propria solitaria impotenza, né la propria mortalità. Indica invece la strada maestra per posizionarsi agli antipodi di un soggetto prestazionale come quello neoliberista, autocentrato, invincibile, latitante ed evitante verso qualsiasi cosa, fatto o legame non parli anzitutto di se stesso.

Se il narcisismo, di cui abbiamo drammatici e attuali esempi soprattutto maschili al potere, deve essere ricercato nell’onanismo relazionale che lo abita fin dalle sue fondamenta, la vulnerabilità corrisponde a una cifra che non può essere più rimandabile. L’obiezione per cui il neoliberismo si serva anche di essa e della sua moltiplicazione a dismisura non giustifica l’incapacità di farsene carico, di farne cioè conoscenza, per toccare intimamente il carattere relazionale tra sé e il mondo.

Su questa proporzione, che sfida il pericolo dell’essere inchiodati dentro la gabbia neoliberista, vi sono contributi recenti che hanno uno stretto e fecondo rapporto con la produzione teorica femminista. Per esempio il volume a cura di Catriona Mackenzie, Wendy Rogers e Susan Dodds, On vulnerability. New essays in ethics and feminist philosophy (Oxford university press, 2014), oppure Judith Butler che, da Vite precarie in avanti, non ha mai abbandonato l’argomento. Del resto, anche in Italia la discussione è interessante, non solo per ciò che è stato prodotto da Adriana Cavarero – non a caso la più significativa e attenta tra le interlocuzioni di Butler in questi anni – e, più di recente, da Tristana Dini nel suo La materiale vita (recensito su queste pagine l’11 gennaio).

Il riferimento ulteriore è adesso quello consegnatoci da Wanda Tommasi nel suo Ciò che non dipende da me. Vulnerabilità e desiderio nel soggetto contemporaneo (Liguori editore, pp. 124, euro 12,99).
Una dichiarazione di intenti fin dal titolo, emblematico e necessario quanto l’intero libro che andrebbe affrontato nei suoi dettagli, a partire dal riconoscimento di non bastarsi, di non essere padroni della propria sorte, di non avere il controllo ma di essere in balia di un «esterno» che può nuocerci o comunque mutare il corso di ciò che immaginavamo imperturbabile.

È una esperienza transitoria oppure racconta di uno statuto del soggetto a cui è impossibile sottrarsi? Collocato agli antipodi del progetto di controllo stabilito dagli stoici, il soggetto contemporaneo secondo Tommasi «è attraversato da forze che lo spingono fuori di sé e che ne rivelano la dipendenza dagli altri e dagli eventi ingovernabili della sorte. Non è una posizione comoda».

Scosso fin dalle sue fondamenta, trafitto dal desiderio, sensibile alle emozioni e agitato dalle passioni, questo particolare soggetto è sessuato ed è ciò che interpella sia l’esistenza singolare – con cui ciascuna e ciascuno di noi fa i conti – ma anche una dimensione più generale, quando cioè si presta attenzione all’esistenza altrui.
Sono la psicoanalisi e il femminismo, secondo l’autrice, che contribuiscono a delineare la stoffa del soggetto marcato da una «intima estraneità».