Valeria Bruni Tedeschi non finisce di stupire. Ancora non si sono spenti gli echi delle lodi ottenute per la sua interpretazione di Beatrice nel film di Paolo Virzì La pazza gioia che già si annuncia in uscita nelle prossime settimane il suo prossimo film, Ma loute di Bruno Dumont, anche questo presentato a Cannes.
E in questi giorni l’attrice è a Locarno per accompagnare un suo originale progetto registico, realizzato insieme a Yann Coridian: Une jeune fille de 90 ans. Un documentario, ma anche una fiction perché la routine quotidiana viene modificata dall’intervento dal coreografo Thierry Thieu Niang. Thierry conduce un laboratorio di danza, e sin qui tutto normale, solo che lo tiene all’ospedale Charles Foix d’Ivry, rivolgendosi a una popolazione di anziani segnati dal morbo di Alzheimer. E li incontriamo subito i malati, profondamente devastati dalla malattia, talvolta accasciati sulla sedia a rotelle, o persi in chissà quali mondi, come la signora che si aggira con una bambola di pezza e la accusa di avere ucciso il suo figlioletto.

Tra loro c’è Blanche, seduta a tavola, non mangia, non parla, non risponde alle sollecitazioni cortesi dell’infermiere. Il tempo è un’entità strana, la memoria in quel posto gioca strani scherzi, c’è chi dice di avere 23 anni e di avere divorziato da poco (e mamma c’è rimasta male), ma spera di avere una nuova occasione. Un anacronismo, perché lì sono le sue memorie. Tocca lavorare su piani altri non su quello dei ricordi. Thierry ci prova, davanti ai pazienti smarriti inizia a comunicare con i suoi movimenti e la cosa incuriosisce. La più reattiva è proprio Blanche che un po’ alla volta, abilmente condotta dal coreografo quasi sembra ballare, poi cammina da sola, a passettini dopo avere abbandonato anche il bastone e racconta di avere ottanta e rotti anni, in realtà ne ha 92, di non essersi mai sposata, ma dagli infermieri sappiamo che ha avuto una vita intensa nella Parigi degli artisti e giorno dopo giorno Blanche sembra come rinascere perché si è innamorata di Thierry.

Lo aspetta, è felice, gli sorride, lo segue nei movimenti, è gelosa quando lui opera con altre degenti, e anche loro se ne rendono conto, invitandolo talvolta a tornare da Blanche che ritrova un’energia che sembrava totalmente esaurita. Se per Blanche sono, forse, farfalle nella pancia a fornire quei frammenti di felicità perduta, per gli altri sono la scoperta di attenzioni, di semplici carezze, di pugni che si incontrano teneramente in un saluto quasi da hip hop. Perché Thierry è davvero una forza della natura nella sua ricerca per fare breccia nell’apparente indifferenza di quei corpi che sembrano non possedere più una guida.

E grazie alle canzonette, ai passi di danza, ai movimenti, all’interazione fatta anche di posizioni oblique per andare incontro alle distorsioni di corpi ormai malmessi compie un piccolo miracolo, forse inutile ai fini terapeutici, ma enorme da un punto di vista umano, con sorrisi di gratitudine che riaffiorano e piedi che sembravano scarichi che battono il tempo musicale.
I due registi si tengono da parte, discreti, solo in una fugace occasione compare Bruni Tedeschi mentre fa una domanda, per il resto sono le immagini, le musiche e le parole a rendere emozionante e commovente ai limiti dell’impudicizia questo racconto di tenerezza e di tristezza miscelate come solo le cose della vita sanno fare.

Più tradizionale il secondo film della piazza Grande, Moka di Frédéric Mermoud che segue passo passo Diane Kramer, interpretata da Emmanuelle Devos, che vive ormai per perseguire la sua ossessione: rintracciare il padrone di una Mercedes color caffè che ha investito e ucciso suo figlio adolescente e poi è fuggito. Diane non ha fiducia nella polizia, parte così per la vicina Evian dove sospetta che possa essere l’auto che ha devastato la sua vita. E la trova. Trova anche la coppia cui l’auto appartiene. E decide di entrare in relazione con loro, con lui avvia una trattativa d’acquisto, per incontrare lei frequenta la profumeria di cui è titolare. Riesce anche a procurarsi un’arma. Ma non è così facile trasformarsi in altro da sé, anche quando il mondo intero ti è cascato addosso portandoti via un figlio.