Dunque Mario Monti riceve l’incarico di formare il suo primo governo nel novembre 2011, ma già a luglio si parlava di lui come sostituto di Silvio Berlusconi. Scoop o lancio promozionale che sia, il Corriere della Sera ha le carte in regola per farlo. Ha infatti tutto nel suo archivio, tutto già composto e raccontato. Tradizionalmente parco – «sobrio» si dirà poi -, tra luglio e agosto di quell’anno Monti scrive quattro editoriali in fila sulla prima pagina del Corriere. Bastano i titoli. «Troppo timidi per crescere», «Quello che serve (davvero) al paese», «Il podestà forestiero», «Un nuovo governo dell’economia». Il secondo, un programma (davvero) di governo, Monti lo pubblica anche sul Financial Times, l’altro giornale che ieri ha scoperto, con un po’ di ritardo, cosa stava succedendo quell’estate. Scoppia la tempesta degli spread, dall’Europa piovono diktat che il governo Berlusconi-Tremonti puntualmente sottoscrive, ed è proprio il Corriere a lanciare l’alternativa: «La ricetta Monti» compare nei titoli di quel giornale, mentre le cronache lì come altrove informano che il governo tecnico è dietro l’angolo. Per conoscere la «ricetta» bisognerà aspettare solo qualche settimana, la si potrà assaggiare in forma di decreti.

Napolitano tramava nell’ombra? Nell’ombra no di sicuro, altrimenti non avrebbe potuto ricevere il sostegno e l’incoraggiamento del Corriere che l’11 luglio puntualizzava: «Si sono creati i presupposti per una sorta di unità nazionale a geometria variabile». Il presidente della Repubblica aveva già fatto di tutto, compreso l’inaudita consultazione al Quirinale dei capigruppo parlamentari, con il governo ancora saldo in carica. Quotidiani i suoi appelli alla collaborazione tra partiti, proprio a luglio diventati più che espliciti con la richiesta di «coesione nazionale per affrontare le difficili prove». Le opposizioni non se lo fanno ripetere e danno il via libera alla manovra di Tremonti, ma Napolitano vuole essere ancora più chiaro e aggiunge: «Bene, ma presto occorreranno altre prove di coesione». Il governissimo è in pista, Monti l’unico candidato seriamente a guidarlo. Bindi, Letta e Bersani gradiscono pubblicamente. Il Giornale naturalmente no: «I poteri forti tramano: vogliono Monti» è un titolo da 25 luglio, ma del 2011. Interessante anche il sottotitolo: «Da Banca Intesa a Repubblica, ecco l’economista scelto per dare l’assalto al governo». Banca Intesa cioè Corrado Passera, riscoperto dallo scoop di ieri. E Repubblica cioè Carlo De Benedetti: che facesse il tifo per Monti era cosa nota non solo a Sant Moritz ma anche in Bocconi, dove l’Ingegnere era andato sempre in quel fatale luglio a parlare in pubblico della crisi e dei rimedi possibili con il professore (e con Bersani). L’altro testimone dell’ascesa di Monti «riscoperto» con tre anni di ritardo è Romani Prodi. Di lui il 24 luglio si potevano già leggere sulla Stampa le stesse parole ritrovate ieri sul Corriere: «Caro Mario – diceva allora l’ex presidente del Consiglio – stavolta tocca a te». Un indovino?

Non serviva una seduta spiritica, visto che il 3 agosto il Financial Times, sempre lui, sapeva già di un governo tecnico a guida Monti. E Monti intervistato dal Tg5 confermava: «Accetterei solo con l’appoggio di tutti. È la stessa cosa che in passato ho già detto a Scalfaro e poi a Berlusconi». A settembre, cioè ancora più di due mesi prima dell’incarico ufficiale, il presidente della Bocconi sedeva accanto a Napolitano a Cernobbio e ne approfittava per annunciare il suo programma. «La ricetta Monti, un pacchetto di misure con il sì di tutti» spiegava il Corriere, allora preveggente e niente affatto scandalizzato.

Mai «golpe» fu più telefonato. Perché nulla nell’entusiasmo dei giornali consigliava discrezione al presidente della Repubblica. Il cui attivismo nel preparare l’alternativa al governo Berlusconi può essere criticato – e su queste pagine fu criticato – ma non può essere raccontato come un segreto da rivelare adesso. Tant’è che Napolitano lo rivendica, nella nota di ieri: Monti «appariva allora – e di certo non solo a me – una risorsa da tener presente e, se necessario, acquisire al governo del paese». Di certo non solo a me.
L’esito era scritto. Arrivato finalmente novembre, fu giusto Prodi a rompere l’embargo. «Monti. È l’ora di Monti», annunciò da Repubblica. Tre giorni dopo Napolitano nominava senatore a vita, guarda un po’, Monti. «Il sequestro della politica», attaccò subito il manifesto. Per i berlusconiani, invece, fu «un bel segnale». Allora.