Nella Ue e in particolare nella zona euro la ripresa, dopo la grande crisi del 2008, è troppo debole per riassorbire la disoccupazione, le ineguaglianze crescenti e le divergenze tra stati membri: sull’avvenire dell’Europa si addensano nubi nere, come provano vari risultati elettorali, già avvenuti (come la Brexit) o attesi nel 2017. Se l’economia della Ue non uscirà dalla crisi in tempi brevi, tutta la costruzione europea corre il rischio di esplodere, sotto i colpi di venditori di soluzioni semplicistiche, come il ritorno delle nazioni rinchiuse nelle frontiere. Eppure, la Ue avrebbe in mano le chiavi di soluzioni possibili, per migliorare la vita dei suoi cittadini, livello pertinente per inserire le nostre società nella mondializzazione senza esserne delle vittime. L’analisi e le proposte del 5° rapporto dell’Iags (Independent Annual Growth Survey) – realizzato dall’Ofce francese, dall’AK di Vienna, dall’Economic Council of the Labour Movement danese e dall’Imk, centro di ricerca vicino ai sindacati tedeschi – mettono a fuoco questa prospettiva, senza proporre strappi federalisti, che in questo periodo non verrebbero accettati dai cittadini delusi e arrabbiati. L’Iags invita a più democrazia nella Ue, con un ruolo accresciuto del Parlamento europeo anche nel controllo della Bce, o persino con la creazione di un parlamento della zona euro: il tragico contro-modello della Grecia, ridotta praticamente allo stato coloniale, non permette più di ignorare la mancanza di legittimità democratica (trojka, Bce ecc.) che si trasforma in nuovo carburante per la rivolta anti-Ue. Il testo del rapporto intitolato The Elusive Recovery (La Ripresa sfuggente) insiste su quella che ormai sembra essere diventata una parolaccia: la spesa pubblica. Non qualsiasi spesa pubblica, ma un investimento pubblico che rispetti la regola d’oro, che permette di allungare i tempi dei vincoli temporali del rientro dei deficit imposti dal Fiscal Compact. Non siamo più all’epoca delle cattedrali nel deserto (o della moltiplicazione degli aeroporti in Spagna). Oggi, c’è enorme bisogno di investimenti di qualità, con effetti a lungo termine: scuola, infrastrutture, energie rinnovabili, tenendo conto dell’interconnessione di questi investimenti nelle economie dei paesi membri della zona euro. Tra le “5 proposte per una crescita sostenibile in Europa”, il rapporto Iags inserisce una carbon tax consistente a 100 euro la tonnellata di Co2, che permetterebbe di rendere redditizi gli investimenti nelle rinnovabili (con interventi statali a favore dei perdenti, come le famiglie che pagheranno l’energia più cara, e tassa alle frontiere europee per la competitività).

Siamo in una stagnazione secolare o almeno nell’incapacità delle economie a stimolare l’investimento. Ci vorranno almeno altri sette anni per tornare al livello di occupazione di prima della crisi, cioè al tasso di disoccupazione del 2007: nel frattempo, l’esplosione sociale è possibile. Da questa situazione derivano molti disastri attuali: l’aggiustamento salariale rafforzato con l’imposizione a tutti di “riforme” strutturali del mercato del lavoro, che influenzano la deflazione e si trasformano in una trappola, la panic-driven austerity di fronte alle minacce dei mercati finanziari non ha fatto che diffondere la recessione. Dal 2015, la Commissione ha cominciato a capire che l’austerità a oltranza portava in un’impasse, ma la nuova dottrina è stata limitata: ha riservato questo trattamento ai paesi “risanati” (Germania, Olanda, Lussemburgo, Austria, Finlandia) e il Piano Juncker è stato molto modesto (30 miliardi di soldi freschi in sei anni, nella speranza di un effetto leva di 315 miliardi) e si è ridotto a svolgere un ruolo di assicurazione sui progetti di investimento privati, portando a una riduzione addizionale del tasso di interesse.

La zona euro risparmia più di quanto spenda (l’eccedente della bilancia corrente è del 3,8% del pil, pari a 394 miliardi nel 2015): ma così facendo, le divergenze tra stati aumentano (eccedenti tedeschi e dei paesi del nord) e cresce il rischio di un apprezzamento dell’euro, che sarà pagato dai paesi a economia più debole (facendo aumentare enormemente il rischio politico di un’esplosione anti-euro e anti-Ue). La Ue vive in “un’incertezza polimorfa”, effetto della “policrisi” di cui parla Juncker. Non mancano i soldi, ma la fiducia per spenderli. L’obiettivo dovrebbe essere di ridurre l’asimmetria tra paesi in eccedenza e paesi deficitari, favorendo da un lato investimenti e aumenti di salari e dall’altro una regola d’oro salariale, per garantire una generalizzazione dei minimi, un coordinamento tra paesi sugli aumenti delle retribuzioni, una ri-centralizzazione e una generalizzazione degli accordi di categoria (cioè tutto il contrario di quello che propongono le varie riforme del lavoro varate nei paesi Ue). Ci vuole coordinamento, in particolare nella zona euro, non una concorrenza al ribasso: anche il riassorbimento dei debiti passa attraverso una maggiore collaborazione.

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