Dall’inizio dell’anno, con sempre maggiore insistenza, ci viene suggerito che la crisi sarebbe finita. Per sottrarci dalle logiche di mera propaganda che arrivano dalle sirene del governo e dai suoi importanti sponsor perlomeno è necessario comprendersi sull’uso dei termini. Effettivamente in Europa esistono alcuni fattori di ordine sovranazionale che vanno nella direzione di circoscrivere gli effetti del crack iniziato nel 2008. Riduzione del prezzo del greggio e recupero del dollaro sull’euro sono i più significativi. Ma entrambi possono avere un carattere incerto nel lungo periodo. C’è poi il fattore bazooka, cioè il Quantitative easing, l’arma adottata dalle autorità monetarie dell’eurozona e che finisce per porre in sintonia la Bce con le altre più importanti banche centrali. Un provvedimento frutto dei nostri tempi, cioè rispondente agli attuali assetti economico-finanziari. Il Qe, infatti, nel suo inondare di liquidità il sistema prova a risolvere i problemi di natura strettamente economica dal punto di vista finanziario. Ciò non rappresenta un disinvolto approccio teorico, ma è il disegno di una nuova morfologia della sfera economica.

La normalizzazione finanziaria non è un’istanza a se stante, ma il prerequisito non solo per la più facile delle strade per valorizzare il capitale, ma anche per arginare le fatiche che si verificano nell’economia reale. La finanziarizzazione non è un processo esterno all’economia, ma la sua ultima e più funzionale rappresentazione. È attraverso questa e il successivo dispiegamento di un’economia a debito che si riesce ad arginare la crisi esplosa negli anni Settanta. Da lì si trasforma l’economia in funzione della finanza, rendendo il ritorno alla separazione di tali sfere un esercizio poco credibile. Recentemente Marcello De Cecco ha spiegato con precisione come, a fronte della prima crisi del prezzo del petrolio, per riequilibrare i conti esteri si è formato un «potere del grande oligopolio finanziario internazionale», capace di fissare i prezzi dei suoi servizi e così drenare risorse finanziarie e persino umane dalle attività industriali. Nei settori non finanziari ormai i dirigenti meglio retribuiti sono quelli addetti al ruolo di interfaccia con il settore finanziario e non quelli impegnati in ricerca e produzione. Insomma sono quelli che «fanno finanza» il segmento trainante anche dell’economia reale.

Ecco l’intreccio del nuovo modello, un modello in cui alla crescita del settore finanziario De Cecco afferma sia «negativamente correlata quella dell’economia reale, dell’industria e dei commerci di un Paese». L’abbondanza di liquidità presente nel sistema in questo periodo poi conduce alla continua ricerca di investimenti anche sul piano dell’industria, da qui i crescenti processi di acquisizione che rischiano di condurre a una nuova bolla. Secondo elaborazioni dei dati di Capital IQ Il Sole 24 Ore afferma che nel 2015 mediamente le imprese sono state rilevate a un prezzo che è 11 volte superiore al margine operativo lordo, cioè con valutazioni che non si vedevano dal lontano 2007. Nel frattempo queste operazioni sono caratterizzate da un minor grado di indebitamento e da più capitale, ma quello che appare evidente è come il segno prevalente della presunta ripresa sia finanziario, anche quando si parla di attività in carne e ossa.
È lì che si torna sempre. Se poi aggiungiamo il desolante balletto di cifre su nuovi occupati e disoccupazione in Italia, oppure l’aumento delle sperequazioni sociali di paesi in crescita sotto l’egida del denaro facile come gli Usa, si capisce come la fine della crisi resti affar di lor signori. Diversamente dal passato l’alta marea non innalza il livello di tutte le imbarcazioni. Quantomeno si può affermare che la ripresa non è uguale per tutti.