Se a fine settembre tenevano banco le elezioni regionali e il referendum costituzionale, a inizio ottobre il Covid, o meglio le misure varate in merito dall’esecutivo, capitalizza l’agenda politica. Pochi giornali nazionali si sottraggono alla tentazione di spendere la prima pagina in merito alle nuove misure. Eppure la vicenda del Next Generation Fund, gli aiuti Ue per la ripresa dalla crisi economica odierna, sarà uno dei fattori chiave dello sviluppo del nostro paese nei prossimi anni; nel senso che la sua dinamica avrà una incidenza direttiva e vincolante sulle politiche economiche italiane. L’attenzione è un po’ scemata anche per la difficoltà di seguire e raccontare le schermaglie diplomatiche fra i vari attorni in campo: negoziazioni fra i Governi, negoziazioni fra le istituzioni europee, nel dedalo delle norme comunitarie ; che non paiono andare particolarmente bene: se l’ECOFIN del 6 ottobre ha dato luce verde alla proposta della Commissione, la trattativa del Consiglio col la delegazione del Parlamento europeo si è rivelata assai più ostica, ed al momento è sospesa.

Il clima di incertezze e scontri fra oligarchie europee durante la crisi pandemica aveva portato a cercare di rimediare con il la proposta della Commissione sul pacchetto di «aiuti» approvata nel lunghissimo negoziato del 17-21 luglio dai capi di Stato e di governo: il Next Generation Fund ed altri strumenti dalle caratteristiche simili sebbene di minore entità. La logica di fondo non è certo delle più promettenti: si tratta di prendere a prestito sul mercato privato dei capitali una cifra pari ad un ammontare di 750 miliardi per darla gli stessi Stati, suddivisi fra sovvenzioni a fondo perduto e prestiti da ripagare in tempi più estesi. Ma per ottenere la cuccagna (la cui cifra più sbandierata per l’Italia è di 209 miliardi) i governi devono stilare un programma in cui descrivono l’utilizzo di tali fondi e sperare che venga approvato dalla Commissione. Se in una seconda fase tornerebbero a soffiare i venti gelidi della austerità, adesso sarebbe il momento in cui arrivano i soldi, per rinserrare il vacillante consenso verso la UE.

Il 15 settembre scorso il Governo italiano ha divulgato un documento dall’impegnativo titolo di Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che deve dare una prima piattaforma di massima, la cui specificazione ulteriore verrà realizzata nei mesi seguenti. Si tratta di un testo ancora piuttosto generale, ma di cui si intravede in filigrana la logica di fondo e che comincia a delineare quello che sarà lo sviluppo dell’Italia negli anni a seguire. La struttura è un po’ complicata: si illustrano quattro sfide (i temi problematici), sei missioni (le aree di intervento per rispondere alle sfide), sei riforme (settori di intervento), il tutto sorretto da tre linee strategiche: modernizzazione, transizione ecologica, inclusione sociale e territoriale.

La visione di fondo che emerge individua alcune indiscutibili problematiche del paese (bassa occupazione, crescita stentata, pochi investimenti) senza collegarle organicamente agli assetti dominanti (quindi non mettendoli minimamente in discussione), pretendendo di sanarle con riforme volte alla competitività del paese (anche quando si tratta di obiettivi quali la tutela del patrimonio culturale o l’efficienza energetica). Le contraddizioni sono evidenti, come nella promozione della mobilità sostenibile e dell’altà velocità ferroviaria; o il valore della digitalizzazione (che pare assumere un aspetto quasi taumaturgico) senza porsi il problema dell’impatto ambientale.

Per arrivare alla contraddizione più flagrante, fra una politica di manica larga e il rispetto della sostenibilità del debito pubblico, cioè con i vincoli di bilancio e la sospirata riduzione a furia di tagli e austerità dell’indebitamento dello Stato.
Ma per ora tali contraddizioni restano sotto il tappeto, ed il modello dominante rimane saldo al suo posto.