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Nella messe di pubblicazioni sul radicalismo politico islamico i lavori di Fethi Benslama, psicoanalista e intellettuale d’origine tunisina, occupano un posto singolare, muovendosi tra psicopatologia, antropologia sociale e presa di posizione politica. Nel suo ultimo libro, Il supermusulmano. (Le surmusulman. Un furieux désir de sacrifice), Benslama riprende implicitamente il concetto di «sovracompensazione», già impiegato da Alfred Adler in Austria tra le due guerre mondiali, per descrivere il passaggio brusco da un complesso d’inferiorità ad un complesso di superiorità.

La sovracompensazione permette infatti di trasformare immediatamente, e quasi per magia, una serie di stigmate d’inferiorità in segni destinali di potenza, e persino di elezione. Questa alchimia inconscia fa sì che una serie di ferite narcisistiche (esclusione scolastica, marginalità sociale, prigione, fragilità identitaria, rottura familiare, condotte a rischio) possano trasformarsi in segni precursori di un destino fuori dalla norma, producendo una «sedazione dell’angoscia, un sentimento di liberazione, slanci di onnipotenza», sanciti dall’atto simbolico di assumere un nuovo nome (di battaglia), espressione di una posizione superegoica che si dimostrerà mortifera.

IL «SUPER-IO» del supermusulmano infatti, alfiere di un Dio umiliato e onnipotente al tempo stesso, pur permettendo in un primo tempo di alleviare il sintomo, in realtà lo esaspera, trasformandolo in un desiderio sacrificale, pura espressione della pulsione di morte. La stessa vocazione al martirio è pervertita, in quanto «nell’Islam tradizionale il martire è un combattente che va incontro alla morte, senza desiderio di morire», mentre «per il nuovo martire dell’islamismo la morte non è contingente rispetto alla lotta, ma ne è la finalità. Morire è il trionfo».

Ciò detto, pur essendo indubbio che il radicalismo funziona come un’offerta senza pari sul mercato del sentimento d’inferiorità individuale proponendo una trasvalutazione di tutti i valori in grado di trasformare il piombo (dell’inferiorità) in oro (della superiorità), il meccanismo si rivela pregnante solo se articolato anche ad un altro livello, trans-individuale.

LA FERITA NARCISISTICA dei soggetti supermusulmani (non necessariamente di origini musulmane) deve poter incontrare una ferita narcisistica collettiva. Qui la lettura di Benslama si fa sottile e invita ad evitare le soluzioni prefabbricate. «L’ideale collettivo ferito» non risiede nel presunto problema dell’islam rispetto alla modernità o alla secolarizzazione politica, ma rimonta al trauma della dissoluzione dell’impero ottomano e del Califfato (1924), non a caso seguita dalla nascita del primo movimento islamista, i Fratelli Musulmani (1928), momento che sancisce non solo l’infeudamento del mondo arabo-musulmano al colonialismo europeo, ma anche la perdita dell’oumma, la comunità, la «matria» piuttosto che la patria o la nazione (watan). «L’offerta jihadista consiste nel sovrapporre il torto fatto alla comunità al vissuto di un grave torto nella vita del soggetto».

Più che un progetto teocratico il fantasma politico dell’islamismo consiste nel desiderio d’abolire le nazioni musulmane nate dalla dissoluzione del Califfato ottomano, così come hanno tentato di fare i Talebani o Daech. Per questo Benslama conclude parlando di un desiderio dell’Uno come cifra politica, o «anti-politica», ultima dell’islamismo guerriero, confrontato ad un’altra forma di culto impolitico dell’Uno, il nazionalismo del despota autocratico. E per questo la sola alternativa ai suoi occhi consiste nello sperimentare delle forme collettive di rinuncia ad ogni fantasma (fallico) di Unità.

ISPIRANDOSI ALLA TUNISIA contemporanea, Benslama difende la necessità di attraversare una fase tumultuosa di diffrazione identitaria, di apprendimento delle proprie differenze e contraddizioni, individuali e collettive, «l’instaurazione di un grande specchio politico», di un «teatro delle verità sociali», come apprendistato soggettivo fondamentale per poter accedere alla rinuncia ad un garante «Unico», rinuncia indispensabile all’apertura di uno spazio propriamente politico.