«L’Italia sta ripartendo? Sì, se ci si basa solo sugli indicatori economici. Ma il benessere italiano è ancora lontano dai livelli del 2009, prima della crisi». Ex presidente dell’Istat e ministro del Lavoro nel governo guidato da Enrico Letta, Enrico Giovannini è l’inventore del Bes, un indice unico al mondo che misura il grado di benessere dei cittadini e non solo la ricchezza complessiva. Complementare al Pil, più che sostitutivo, ma fondamentale per comprendere più a fondo la società italiana, anche se «alcuni indicatori andrebbero resi più tempestivi, come già accade per il Pil», sostiene. «Fin da quando lavoravo all’Ocse, mi sono battuto contro la cultura del numero unico sulla quale si basa il Pil», dice. Invece, «bisogna accettare la complessità», dunque la possibilità che «alcuni parametri migliorino e altri no» o che il benessere possa essere distribuito a macchia di leopardo, perfino all’interno della stessa città. Come portavoce dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (Asvis), Giovannini è pure soddisfatto del fatto che l’Istat per la prima volta abbia adottato degli indicatori di sviluppo sostenibile, ascoltando i suggerimenti delle Nazioni Unite, «anche se avrebbero potuti essere noti prima perché fossero utilizzati per la legge di bilancio appena approvata».

15pol2 Enrico Giovannini

 

Insomma, professor Giovannini, il Paese sta ripartendo e molti cittadini non se ne sono accorti?

Se ci si basa sui normali indici economici, questi dicono che c’è una ripresa, ma è contenuta e non compensa affatto gli anni della crisi. Se andiamo a guardare bene, notiamo che siamo ancora ben al di sotto dei valori del 2009. Le piccole variazioni che ci sono state non bastano a recuperare il terreno perduto. A questo va aggiunto l’aumento delle disuguaglianze, che sono fortissime.

Che tipo di disuguaglianze?

Soprattutto quelle intergenerazionali, tra gruppi sociali e territoriali. Un piccolo aumento dell’occupazione non basta a certo a compensare il divario.

Vuol dire che i giovani stanno decisamente peggio dei loro genitori e nonni e il Sud peggio del Nord?

Sì per quanto riguarda il primo punto, non necessariamente per il secondo. Ci sono aree del Nord Italia che non stanno messe meglio del Mezzogiorno, ad esempio alcune periferie di grandi città.

È il tema che si pone all’attenzione della politica pure nel resto dell’Europa e sta mettendo in crisi le élite continentali, a vantaggio dei populismi.

Certo. Se leggiamo il rapporto dell’Istat sulla soddisfazione di vita delle persone, pubblicato di recente, notiamo che esiste un forte disagio in molte città a causa del peggioramento dei servizi di trasporto. In questo caso è la qualità della vita a peggiorare, perché tutti odiano il tempo trascorso su bus, treni locali, tram e metropolitane.

Una delle poche novità, forse l’unica, del neonato governo Gentiloni è il ritorno di un ministero che dovrà occuparsi del Mezzogiorno. Senza voler scomodare la vecchia «questione meridionale», la considera una scelta che va nella giusta direzione, ossia di una riduzione del divario tra il Nord e il Sud dell’Italia?

È un segnale di attenzione, soprattutto se si pensa all’attuazione della programmazione dei nuovi fondi strutturali europei 2014-2021. Ora si tratta di realizzare il processo che abbiamo cominciato con il governo Letta e una regia centrale può spingere perché vengano utilizzati, anche se poi il compito spetta soprattutto alle regioni. Spendere questi soldi è un’assoluta necessità, perché solo in questo modo si può creare una massa critica che non si riuscirebbe a realizzare a causa dei vincoli di bilancio. Se non lo si fa, non si può nemmeno immaginare quel salto di qualità di cui abbiamo bisogno.

In ogni modo, il Sud rimane fanalino di coda in numerosi parametri.

Tutti i dati contenuti nel rapporto mostrano come il divario con il resto dell’Italia sia inaccettabile. Faccio un solo esempio: gli asili nido, che sono un elemento cruciale per la crescita delle disuguaglianze tra donne e uomini. Anche nel resto d’Europa ci sono aree che sono indietro e che stanno recuperando, penso alla Polonia. Se in Italia non riusciamo a far crescere il nostro meridione non di qualche zero virgola ma di diversi punti percentuali, non risolveremo il problema e l’intero paese non beneficerà neppure dell’effetto di trascinamento di questa crescita.

Il dossier sul Benessere equo e sostenibile dipinge un quadro non univoco. Non tutti i dati sono terribili. Come va interpretato, secondo lei?

La realtà non può essere sintetizzata in un singolo numero: lei la guiderebbe un’automobile che le indica solo la velocità e poi magari la lascia senza benzina? Quello del numero unico è un riflesso condizionato della cultura del Pil, contro la quale mi batto da tempo. Bisogna accettare la complessità e rendersi conto che alcune condizioni migliorano e altre no. Il quadro che emerge non è però contraddittorio: nonostante alcuni segnali positivi, è evidente che complessivamente la situazione del benessere è lontana dai livelli pre-crisi. Considerando la crescita delle disuguaglianze, i miglioramenti non sono percepibili allo stesso modo da tutta la popolazione.