Se mai un giorno Milano dovesse avere il museo del design italiano del quale si parla invano dalla fine degli anni quaranta – o meglio se ne parlava prima che vi supplissero quello della Triennale e il Salone del Mobile – una sala sarebbe giusto dedicarla alla storia de La Rinascente. La prova sono due mostre che ne celebrano il centenario della nascita: l’una al m.a.x. museo di Chiasso (La Rinascente. 100 anni di creatività d’impresa attraverso la grafica), l’altra al Palazzo Reale di Milano (LR100 Rinascente Stories of Innovation). La prima racconta, con il consueto rigore curatoriale del museo, il contributo del popolare «magazzino» alla cultura del design nei settori della comunicazione, della grafica e del prodotto industriale, dal tessile all’arredamento. La seconda preferisce ricordare il successo dell’impresa commerciale affidandosi a uno scenografico quanto eterogeneo allestimento (OMA/AMO), che deprime i materiali d’archivio – in particolare gli originali dei manifesti di Marcello Dudovich – oltre a divagare con una serie di opere d’arte che Sandrina Bandera (curatrice con Maria Canella) giustifica in quanto «la Rinascente offrì proposte commerciali integrate con la cultura artistica moderna», ma il tutto resta sospeso e per nulla sviluppato con la necessaria disciplina. Inutile dire che senza il contributo ticinese l’occasione di rievocare l’inventiva del nostro più famoso grande magazzino non sarebbe stata la stessa, anche perché la presenza degli svizzeri nella sua storia è stata decisiva com’è possibile verificare appena superato il nostro confine.
Piazza Duomo, un volume rilevante
Tutto ha inizio nel 1877 dall’intuito imprenditoriale di Ferdinando e Luigi Bocconi, che vollero importare in Italia il modello di vendita dei grandi magazzini americani e poi europei (Parigi, Londra, Berlino). Una novità anche per l’impegno edilizio nel costruire un volume rilevante nella scena urbana, come si dimostrò nel 1889 quando i fratelli Bocconi inaugurarono in piazza Duomo, di lato alla galleria Vittorio Emanuele II, la loro nuova sede «Alle città d’Italia». Dopo un ventennio circa i magazzini Bocconi passano all’industriale Senatore Borletti, che li riapre nel 1921, dopo l’incendio dei bombardamenti che li aveva distrutti, con il «profetico» nome nuovo che d’Annunzio inventò confermandosi, oltre che soldato-poeta, un antesignano copywriter.
Almeno fino agli anni ottanta La Rinascente è stata un’azienda all’avanguardia nel promuovere lo «spettacolo delle merci» e la progressiva sensibilizzazione al consumo di massa, contribuendo a definire quella singolare «via alla modernizzazione» che, come scrive Mario Piazza, curatore con Nicoletta Ossanna Cavadini dell’esposizione ticinese, è il tratto distintivo della nostra identità sociale e culturale. Nel percorrere il secolo di storia della Rinascente, il filo rosso della singolare ricerca creativa, documentata dall’ampia raccolta dei materiali esposti nelle due mostre, non arriva agli anni recenti dell’economia globalizzata, quelli che vedono proprietaria la società thailandese Central Retail Corporation dopo una serie di cessioni precedenti che dalle famiglie Borletti-Brustio portano negli anni settata al Gruppo Fiat e poi ai francesi di Auchan.
Se dagli anni venti ai quaranta sono la cartellonistica e la grafica pubblicitaria di Dudovich a egemonizzare la vetrina e la comunicazione con la stessa incisiva forza visiva di un Mucha, un Hohenstein o un Cassandre e in linea con i nostri Metlicovitz o Cappiello, sono gli anni cinquanta quelli che tracciano l’identità di questo singolare «laboratorio del Novecento» (Canella). Nel dopoguerra, in una città che presenta ovunque macerie, la riapertura della Rinascente continua in direzione della «democratizzazione del lusso» con l’abito-pronto e mobili e oggetti per la casa prodotti in serie. I nuovi allestimenti disegnati da Carlo Pagani hanno lasciato alle spalle il «neoclassico moderno», come quello di Gio Ponti e Emilio Lancia che nel 1928 creano il marchio Domus Nova (due soli pezzi alla mostra milanese purtroppo falsano il loro apporto). Adesso l’intérieur offerto al ceto medio borghese segue «il mondo dello standard», come l’ha definito Mario Bellini che esordì nel design, con Italo Lupi e Roberto Orefice, proprio con La Rinascente. All’insegna della lezione etica ed estetica bauhausiana, negli anni cinquanta il magazzino esibisce alla Triennale (La forma dell’utile, 1951) la sua proposta di arredo completo per la casa su disegno di Franco Albini (con Franca Helg nel 1957 il progettista della sede di Roma), ma si fa promotore esso stesso di iniziative culturali come quella nel 1953 dal titolo L’estetica del prodotto.
Il «vento ardito e visionario di rinnovamento – come ricorda Natalia Aspesi nel catalogo della mostra milanese (Skira) – è non solo merceologico ma sociale, ideologico, di immagine». Il ritorno della democrazia porta con sé un nuovo marchio: «lR» dello svizzero Max Huber. È sull’asse Zurigo-Milano, infatti, come ha bene rilevato la Cavadini, che avviene l’unità tra grafica (Lora Lamm, Mario Trüb, Georg Ehrhardt), fotografia (Serge Libiszewski) e design che poi è il contenuto del progetto moderno del «Swiss Style» inteso come rigore nella razionalità delle forme e dei caratteri grafici. In questo «mutamento strutturale del linguaggio» si inserisce la sperimentazione dell’immagine e del prodotto di Albe Steiner, che nella «teatralizzazione» della vetrina, oltre che nella grafica, assolve con invenzioni originali il dettato che «la vendita ha inizio dalla strada».
Nelle vetrine, nei singoli reparti
La mostra del m.a.x. approfondisce, grazie a Raimonda Riccini, l’importanza dell’esposizione del prodotto nelle vetrine e nei singoli reparti interni. Per il coordinamento dell’immagine nel 1967 è chiamato Tomás Maldonado, all’epoca rettore della Scuola di Ulm. Insieme ai progettisti da lì giunti, organizza per La Rinascente e Upim (un marchio che si aggiunge con i suoi magazzini sparsi nella penisola) le regole con le quali disegnare contenitori, vetrine e spazi oltre che cataloghi, manifesti e dépliant, che dovranno essere ordinati, uniformi e modulari: in una parola standardizzati. Tuttavia ciò non limitò la sperimentazione, come nel 1970 dimostra Paola Lanzani con il suo allestimento «cinetico» di cubi colorati sospesi all’esterno dei portici di Piazza Duomo. Finì la stagione delle «Grandi manifestazioni» (1958-’65) a tema dedicate all’artigianato di un paese straniero: un grande successo quelle dirette dalla svizzera Amneris Liesering Latis, rivolte al Giappone, al Messico o agli Indios. Tramonta l’idea, forse eclettica, dei «piccoli negozi specializzati» di Pagani, che diedero l’occasione a Bruno Munari di realizzare la sua giostra colorata al reparto giocattoli, anche se il designer milanese per primo comprese la necessità di schemi ripetibili per una «scansione ritmica della merce» in grado di controllare l’«artisticità» e garantire l’identità del marchio.
Eppure per decenni al centro degli interessi de La Rinascente c’è stata (almeno prima dell’ingresso della famiglia Agnelli) la convinta idea che il progresso industriale del paese dovesse coincidere con quello sociale e culturale della gente. Lo si raggiunse, è vero, come ci ricorda Luciano Galiberti, presidente dell’ADI, costruendo “un modello inedito di relazione tra progetto, produzione e mercato”, ma è ancora più autentico e attuale nei nostri anni neoliberisti ciò che Marta Sciavi scrisse su un numero di «Cronache della Rinascente-Upim» nel 1968: «Fino a quando il commercio coltiva i gusti deteriori, di progresso non si può proprio parlare».