È stata una giornata dura. Andare con le persone sopravvissute all’hangar dell’aeroporto di Lampedusa per il saluto alle centoundici bare è un’esperienza difficile da descrivere. Il pensiero arretra di fronte all’orrore e ai suoi effetti. Il pianto dignitoso di centocinquantacinque persone, le grida, i corpi che si accasciano non chiedono compassione ma ascolto perché dicono una verità profonda, non solo individuale ma soprattutto storica. Dicono del paradosso di cui queste persone si fanno carico ed espressione: non si è trattato di un incidente ma di un evento – non il primo – reso possibile da una configurazione politica ed economica che vede l’Europa tirare le fila delle economie della post-colonia, supportare dittatori per poi accoglierne le vittime chiamandoli rifugiati.

Parlano della violenza politica ed economica che penetra i rapporti sociali, dell’incorporazione da parte delle nuove generazioni della non speranza di poter cambiare qualcosa nel proprio paese e quindi rischiare tutto per migliorare ’almeno’ le condizioni proprie e della propria famiglia. Arrivare infine in un paese il cui ordinamento favorisce il fallimento di un progetto, piuttosto che supportarne la riuscita, attraverso una violenza sottile e quotidiana, simbolica e quindi performante, che mira a costruire un soggetto debole.
Non si dice abbastanza che tutto questo si pone in una continuità con il colonialismo, con il controllo e la disciplina di una parte di popolazione da parte di un’altra. Con il tributo umano alla ricchezza occidentale che è stato lo schiavismo, ancora presente in forme più ambigue e per questo più insidiose. Questo naufragio ha messo in luce come le leggi italiane ed europee sulla migrazione siano fondate ancora in gran parte sulle stesse logiche.
Occorrono grandi numeri di cadaveri per ammettere che gli uomini, le donne, i ragazzi e i bambini che sono morti nel deserto o in mare non sono stati uccisi dalle condizioni avverse del mare ma dalle leggi sulla migrazione, tanto italiane quante europee. La commozione di queste ore, lo «streap tease dell’umanismo occidentale» sono direttamente proporzionali alla rimozione di una responsabilità storica che chi arriva qua dal mare, dall’Eritrea e dalla Somalia in questo caso, conosce invece molto bene. Non si stupisce, quindi, di incontrare qualcosa di già noto.

Sono queste giornate di sguardi, di strette di mano, di incredulità condivisa tra queste persone sopravvissute al naufragio e noi operatori. Di rispetto e di silenzio, ma anche di ascolto di ripiegamenti e frammentazioni – anche nostri – che non devono essere messi a tacere ma ai cui interrogativi la politica e ciascuno di noi, con il suo ruolo, è chiamato a rispondere. Sono giornate di condivisione ma in cui l’empatia non deve diventare in alcun modo compassione perché quanto accaduto è una tragedia avvenuta in un campo non-neutrale bensì ordinato secondo uno squilibrio di potere ben preciso che la vittimizzazione dei superstiti non farebbe che riprodurre e rafforzare. Le leggi sulla migrazione parlano dell’Italia, dell’Europa, parlano di chi le ha scritte, non dei soggetti che lasciano il loro paese e che non sono interpellati abbastanza circa l’inefficacia di queste stesse leggi nel rispondere al proprio mandato. La loro verità sul nostro sistema normativo e di accoglienza ancora non è stata detta, non ha preso la prima pagina neanche in questa occasione.

Mi chiedo: che risposta sarà data alla sofferenza di questi superstiti quando lasceranno Lampedusa? L’attenzione si concentrerà sugli aspetti traumatici intrapsichici, se ne darà una misura, magari in termini di una diagnosi – quella del post-traumatic stress disorder – che isolerebbe, in questo caso, la dimensione biologica della sofferenza dall’intenzionalità della violenza che l’ha provocata? Ma come si interverrà sull’eccesso di questo dolore? Chi ci assicura che saremo capaci di curare le ferite – individuali e collettive – che noi stessi abbiamo provocato, con le nostre politiche? Sulla base di quale concetto razzista e ottuso di ’civiltà’ crederemo di potere supportare queste persone che raggruppiamo arbitrariamente in categorie per dire loro quali bisogni debbano avere una volta arrivati qua? Non hanno bisogno di noi se noi siamo coloro che – nuovamente – li ingannano, li controllano, dicono loro addirittura come esprimere e come chiamare, ovviamente con le migliori intenzioni ‘civilizzatrici’, la loro sofferenza.

Per la sofferenza di ogni persona sopravvissuta al naufragio, adulta o minore che sia, non basteranno forse anni a stemperarsi. Ognuno di loro, speriamo, ce la farà ma in questo momento, in quanto psicologo e psicoterapeuta sarei complice del sistema di violenza ordinato che consente questi naufragi se del dolore di queste persone vedessi solo la dimensione individuale e non riconoscessi, come è invece doveroso, la ferita collettiva inferta a una popolazione che va ad aggiungersi, ed è in continuità, a quelle che storicamente si porta sulla pelle chi viene dal continente africano. Proprio perché immersi in una retorica umanitaria – che talvolta sembra l’unico modo per avvicinarsi al dolore inflitto senza considerare le complicità tra gli attori del teatro in cui la violenza si produce e riproduce – e che rischia di occultare ancora il problema reale, è legittimo chiedersi se la prossima legge sulla migrazione saprà farsi carico di questa verità storica per rispondere alle domande dei sopravvissuti, che sono le stesse delle persone scomparse oggi pubblicamente compiante.

*Psicologa, psicoterapeuta, Coordinatrice Progetto Faro III Terre des Hommes. Supporto psicologico e psicosociale ai minori migranti e alle famiglie con bambini in arrivo a Lampedusa