Siamo da anni, anzi da decenni, in piena emergenza ambientale, tra piogge intense e siccità estreme, scioglimento dell’Artico e cambiamento climatico. Ma pochi tra gli studiosi e i commentatori, e quasi nessuno tra i politici, è disposto a riconoscere il nesso stretto tra crisi ecologica e crisi economica, neanche ora che ci stiamo “mangiando” la terra. Come se la distruzione della natura, usata come miniera da cui estrarre materie prime e fossili, e la rottura dei rapporti sociali che ne consegue non fosse causa diretta e indiretta di disoccupazione e di marginalità, di aumento della povertà e di crescenti diseguaglianze sociali.
La natura è infatti un organismo vivente capace di auto-organizzarsi perché opera con risorse endogene, che non dipendono dal “fuori” come i sistemi dell’economia di mercato, ed è pertanto sostenibile sotto il profilo ecologico.
Non è invece una macchina, di cui si può sostituire la parte che non funziona, senza preoccuparsi delle conseguenze sistemiche che ciò avrà sicuramente su tutto il sistema.
Le cause della rimozione della natura, iniziata con la rivoluzione industriale inglese, sono molte, tra queste l’avidità delle classi dominanti, che da essa traggono ricchezza e potere, e l’assuefazione dell’opinione pubblica, ottenuta con la lusinga del benessere fondato sui consumi di massa.
Particolarmente grave tuttavia è la rimozione della natura da parte delle istituzioni pubbliche che, conquistate dall’ideologia del mercato e dominate dal potere delle multinazionali e della finanza, hanno rinunciato al loro ruolo di mediatori tra interessi contrapposti ma legittimi, come quelli dei lavoratori e delle imprese.
La gravità della derubricazione della natura dal discorso pubblico sta nel fatto – di cui si parla poco o niente – che le risorse naturali e monetarie vengono usate per alimentare e consolidare un modello di produzione e di consumo che risponde alle esigenze di pochi, non ai bisogni di tutti.