Un’esposizione universale che si inaugura durante la festa del Primo maggio avrebbe potuto e dovuto dare uno spazio anche ai temi del lavoro. La disoccupazione, l’impoverimento dei lavoratori e la precarietà dilagante sono infatti questioni cruciali e irrisolte del tempo presente, almeno nella vecchia Europa. In Italia, il paese che ospita l’Expo, questi fenomeni raggiungono dimensioni ancora maggiori che altrove.

In passato è accaduto che un’esposizione universale abbia dato risalto ai temi sociali. Poco più di un secolo fa, durante l’Esposizione internazionale del Sempione, svoltasi a Milano nel 1906 e dedicata all’argomento dei trasporti, venne dato ampio risalto ai temi della previdenza sociale e del lavoro. In quella occasione la Società Umanitaria di Milano curò un padiglione dedicato ai problemi sociali, e organizzò contestualmente due convegni internazionali, uno sull’assistenza pubblica e privata, a maggio, e uno sulla disoccupazione, in ottobre.

Quest’ultimo fu il primo nel suo genere, e contribuì a sottolineare per la prima volta l’esistenza del problema dei lavoratori disoccupati, con l’obiettivo di mettere in contatto un gruppo di riformisti e di specialisti della materia capaci di predisporre strumenti di contrasto al fenomeno.
Il primo congresso internazionale contro la disoccupazione si collocò in un momento di ascesa del movimento socialista e del sindacato: in quello stesso anno, non a caso, nacque in Italia la Confederazione generale del lavoro.

All’inizio del Novecento l’idea che la disoccupazione fosse un fenomeno involontario e non il frutto di una scarsa propensione al lavoro era ancora un’acquisizione recente e precaria.

Se oggigiorno, in tempo di crisi economica, appare normale parlare di disoccupazione (nonostante la sua definizione a livello statistico sia controversa e le proposte avanzate per contrastarla siano divergenti), c’è stata una fase della storia del capitalismo durante la quale il problema dei senza lavoro, sconfinando nel più ampio tema del pauperismo, non era percepito come un fenomeno degno di particolare attenzione e di cui la collettività e i pubblici poteri dovessero farsi pienamente carico.

Solo in occasione del congresso di Milano del 1906 venne definitivamente messa da parte la vecchia lettura moralistica della disoccupazione, intesa come colpa individuale o come inclinazione all’ozio. In altri termini, venne per la prima volta riconosciuto il carattere involontario della condizione del disoccupato.

Non è del tutto fuorviante fare un confronto fra la situazione attuale e quella di inizio Novecento: gli anni che stiamo vivendo, infatti, se paragonati alla quella fase della storia del capitalismo, sembrano caratterizzati da un processo alla rovescia, alla fine del quale quello che rischia di profilarsi è un offuscamento delle questioni sociali e del dramma della disoccupazione involontaria.

Oggi, in Italia e in Europa, la disoccupazione sembra essere vissuta dai governanti come l’ultimo dei problemi.

È ormai da decenni, d’altra parte, che la politica economica ha smesso di perseguire un’occupazione piena e di qualità. Lo rivela l’accettazione quasi acritica, da parte degli organismi governativi, del concetto di «disoccupazione naturale»: esisterebbe, secondo la teoria economica prevalente, un livello di disoccupazione strutturale (cioè naturale) ineliminabile, non comprimibile a meno di non creare inflazione.

Questo tasso di disoccupazione «naturale» in Italia è oggi stimato intorno all’11%. L’Italia e l’Europa di oggi, si potrebbe dire, sono giunte a una sorta di «coesistenza pacifica» con la disoccupazione a due cifre.

In questo scenario la mancanza di un riferimento ai temi del lavoro nell’ambito dell’Expo 2015 è purtroppo in sintonia con lo spirito dei tempi.