Una discarica. Un cumulo di detriti che si allarga a coprire tutta la scena. È in questo informe paesaggio che Milo Rau ha scelto di allestire la sua nuova creazione, Compassion, in scena per due sere sul palcoscenico dell’Arena del sole all’interno del progetto Prospero. Da un lato, seduta a un banco attrezzato che resta poco visibile dietro quell’ammasso di immondizie, un’attrice ha cominciato a raccontare la sua storia. Si chiama Consolate Sipérius, ha ventisette anni, è belga ma originaria del Burundi. A quattro anni è sfuggita al massacro della sua famiglia. Erano hutu. Ma il racconto è divertito, condito da buffe espressioni del viso che lo schermo posto sul fondo restituisce ingigantito. Scherza sulla curiosità che suscitava da bambina nel piccolo paese dov’era finita, in anni ancora non globalizzati. E intanto lo spettatore cerca di ritrovare memoria di quella lontana strage. Gli hutu e i tutsi, le due etnie a lungo in guerra. Migliaia di morti. Quando fu?

I morti in realtà furono forse milioni, in quel lembo del Centro Africa che va dal Ruanda al Congo che allora si chiamava Zaire. Ma è solo un prologo, quello così introdotto dalla giovane Consolate, serve per calarsi nell’oggetto dichiarato dello spettacolo, che ha un nuovo inizio quando entra in scena una seconda attrice, una bravissima Ursina Lardi (svizzera ma berlinese d’adozione, la ricordiamo protagonista del Matrimonio di Maria Braun diretto a teatro da Ostermaier). Si muove con cautela per la scena, mentre un’altra vicenda biografica emerge dal suo racconto. Muove dalla fotografia del bambino che il mare ha riportato sulla spiaggia di Bodrum, da dove i suoi cercavano di arrivare sull’isola di Kos. Per proseguire da lì il viaggio in Africa compiuto in compagnia del regista alla ricerca della documentazione su cui è costruito il testo dello spettacolo. Arrivando così a rievocare un periodo trascorso ai confini fra Congo e Ruanda, una ventina d’anni fa, con una delle tante organizzazioni non governative che si disputavano gli aiuti alle popolazioni.

Un poco per volta quelle lontane vicende riemergono con la concretezza che solo il vissuto può dare, dove cioè il personale sta in primissimo piano, con tutte le sue ambiguità e le sue contraddizioni. Ma proprio per questo capace di mettere in luce l’errore di prospettiva con cui si guarda alla realtà.

È quel che  Milo Rau definisce «reenactment», potremmo tradurlo come ri-messa in atto. Il regista svizzero, non ancora quarantenne, ha fin dal principio scelto gli eventi sanguinosi che costellano la storia recente del mondo in cui viviamo come tema del suo lavoro, che è politico nel senso di fare teatro in maniera politica. L’uccisione dei coniugi Ceausescu, la strage di Utoya, al Ruanda aveva già dedicato un altro spettacolo… Potrebbe essere preso per un teatro di narrazione, dalla vocazione «civile»; è tutt’altro. C’è poco da salvare nel racconto dell’attrice che, in equilibrio fra verità documentaria e finzione, fa brillare come una mina quel sentimento, la compassione appunto, dietro cui si nasconde una rimozione.