Mentre la serata avanzava e la rimonta inattesa di Joe Biden ridimensionava live le prospettive di una grande conquista del Super Tuesday da parte di Bernie Sanders, il sospiro di sollievo collettivo dei commentatori tv era così evidente da trapassare lo schermo. Dopo mesi di crisi d’identità -accentuata da un coverage mediatico più consono alla progressione degli episodi di una soap opera, con personaggi che vengono drammaticamente esaltati e scaricati subito dopo, che a quello di una campagna per la presidenza Usa – il partito democratico si riallineava con la precisione di una coreografia di Busby Berkeley. Al centro.

La rapida successione dei ritiri/endorsement di «Pete» e «Amy», il rientro in scena dal Texas di “Beto” (li chiamiamo così. Come i protagonisti di una soap, appunto), seguiti la mattina di mercoledì da Michael Bloomberg – che oltre all’endorsement ha offerto allo squattrinato Biden le chiavi della cassaforte – hanno dato prova di una disciplina di partito che migliaia di elettori (elevatissima la percentuale di chi ha scelto il candidato nelle 24 ore prima di votare) hanno evidentemente trovato rassicurante. Ancora prima dei risultati, nella giornata di martedì, online, giravano leggende metropolitane secondo cui dietro ai ritiri di Buttigieg e di Klobuchar ci sarebbero state telefonate personali dello stesso Obama, che formalmente però ha finora rifiutato di schierarsi («C’è Obama dietro al movimento per fermare Bernie?», si intitolava un segmento video sul popolare sito politico The Hill).

Rassicurati dal riallineamento dietro a Biden – insieme alla Borsa, che ha dimenticato per un attimo il Coronavirus – sono sembrati anche quelli che Trump chiama con derisione «i liberal media», che molto liberal in realtà non sono e che, nei confronti di Sanders, sembrano aver sposato un atteggiamento da «pericolo rosso», sottolineando appena possono che si tratta di un (candidato) democratico socialista, come fa Breibart News. Va ascritta anche a questo establishment mediatico la responsabilità di aver spinto con intensità martellante la narrativa di queste primarie democratiche sul fattore dell’eleggibilità. Fattore che, non solo non si basa su una scienza oggettiva, ma può variare a seconda di come lo guardi, e che sta trasformando gli elettori stessi in una popolazione di pundits, nevrotici e insicuri, che cambiano candidato ogni giorno (basta un guizzo in un dibattito, un meme particolarmente efficace, o «il» cliché: una donna sarà mai eletta), come gli opinionisti politici, lautamente pagati per la condanna ad imboccarci 24 ora al giorno di news.

In questo panorama di preoccupazione e panico generali, una coreografia coerente come quella messa in scena dai democratici negli ultimi giorni può rendere rassicurante anche la ri-materializzazione improvvisa di Joe Biden («un redivivo dall’aspetto imbalsamato», notava puntualmente un amico martedì notte). Sicuramente cristallizza in modo più efficace lo scontro tra l’ala centrista e quella progressista del partito. Molto meno rassicurante è il sospetto che, dal 2016 a oggi, quel partito non abbia imparato molto.