In commissione Affari sociali il ministro Speranza ha delineato la riforma dell’assistenza sanitaria territoriale, che prevede 1.350 case di comunità: «Gli studi dei medici saranno gli spoke delle case della comunità hub». Il progetto non convince Andrea Filippi, segretario nazionale della Fp Cgil Medici.

Perché siete contrari all’attuale rapporto dove il medico di base è un libero professionista in convenzione con il Servizio sanitario?
Sono medici senza tutele: niente ferie, nessuna copertura per la gravidanza. Sono iscritti all’Enpam, un fondo che garantisce la malattia ma non copre gli infortuni. Non hanno sostegni amministrativi, non ricevono strumenti e non hanno l’Inail. Con quello che è successo con il Covid, il parlamento avrebbe dovuto approvare un ristoro per le famiglie dei medici di base deceduti in quella che è stata una guerra e non è avvenuto: una vergogna ma a monte c’è la mancanza di tutele. Eppure l’Ordine dei medici, l’Enpam dicono no alla dipendenza cioè no alle tutele. Certo, il passaggio svuoterebbe le casse dell’Enpam.

Come funziona adesso l’assistenza territoriale?
Negli anni è stata smantellata più degli altri servizi ed è rimasta incentrata sulla frammentazione dei 40mila studi di medicina generale, scollegati tra loro e con il Ssn. L’ex ministra Turco provò a introdurre le Case della salute ma solo poche regioni le hanno realizzate. Il ministro Balduzzi emanò una nuova legge che prevedeva la possibilità di costituire Unità di cure primarie complesse, mentre le regioni potevano costituire Aggregazioni funzionali territoriali cioè studi medici aggregati. Neppure la legge Balduzzi è stata realizzata. Su questo si innesta la riforma.

Come cambierà l’assistenza?
L’Ue ha dato mandato all’Italia di riformare l’assistenza territoriale con particolare riferimento alle cure primarie. Il Pnrr destina risorse solo all’edilizia sanitaria e all’innovazione digitale. Il ministero sta ripensando il settore partendo da un principio sano: assistenza sociosanitaria incardinata sui servizi. Da qui l’idea delle case di comunità sociosanitarie. L’organizzazione però viene declinata in base a un documento dell’Agenas e del ministero che presenta molte lacune. Non vengono stabiliti tutti gli standard delle attività multidisciplinari delle case di comunità: vengono indicati quanti infermieri dovranno lavorarci ma non vengono individuati gli standard per medici, psicologi, sociologi, assistenti sociali, educatori. Rischiano di essere vuote.

Come modificare l’organizzazione del lavoro?
Dovrebbe essere incentrata sui servizi e la multiprofessionalità, come previsto oggi per i servizi di salute mentale cioè un’equipe intorno alle persone: infermiere, medico, psichiatra, psicologo, assistente sociale ed educatore con lo stesso rapporto di lavoro, tutti all’interno del Ssn con i contratti collettivi nazionali e lo stesso riferimento organizzativo. Il tema dipendenza o convenzione dei medici di base è centrale per andare al cuore della governabilità del sistema.

Cosa propone il ministero?
Due principi che condividiamo: uniformità organizzativa sul territorio nazionale e integrazione dei servizi garantendo prossimità e rapporto fiduciario. Ma prossimità e rapporto fiduciario il ministero si convince che si possano garantire solo lasciando gli studi dei medici privati. Per noi è un errore. Il rapporto fiduciario deve essere costruito con il servizio, è il rapporto terapeutico che costruisce la fiducia. Invece viene mistificato che il rapporto fiduciario sia scegliersi il medico da un elenco.

Perché questa scelta?
È un compromesso tra esigenze sindacali e regioni. Nel primo caso c’è la volontà di conservare le prerogative politiche sul sistema. Le regioni invece vogliono governare il sistema e quindi incardinare nei servizi i medici di base. Il ministero crea un ibrido: li mantiene negli studi professionali, retribuiti a paziente, sovraccaricati dalla burocrazia ma indipendenti. Per andare incontro alle regioni ne organizza il lavoro su 38 ore settimanali: 21 negli studi, 6 nel case di comunità, 11 secondo quello che dicono i distretti e i progetti regionali. Così si approfondiscono le differenze nell’offerta di salute da Asl ad Asl. E non si considera che oggi lavorano 70, 80 ore a settimana: arretra l’offerta ai loro assistiti mentre le 6 ore nelle case di comunità non consentono la presa in carico dei pazienti.

Si può rivoluzionare il sistema?
Si può introdurre la possibilità di lavorare nel case di comunità a tempo pieno su base volontaria. Le regioni hanno contestato la proposta del ministero integrandola con un emendamento approvato all’unanimità che chiede di poter assumere medici dipendenti nelle case di comunità. Non l’obbligo ma la possibilità. Il ministero sta dicendo di no, è sconfortante. Ci viene l’idea che sia troppo condizionato dalla rappresentanza corporativa che resiste al cambiamento.