Un polverone avvolge al Zannah. E in questa nuvola si muovono senza sosta le ruspe che ammassano macerie e poi le spaccano in pezzi più piccoli. Alcuni operai armati di seghe elettriche tagliano ferro e acciaio, separandolo dal cemento. Il frastuono è assordante ma intorno, dalle finestre delle abitazioni ancora in piedi, qualche bambino osserva incuriosito i movimenti dei mezzi pesanti. Poco lontano, a Bani Suheila, ci sono i resti dell’edificio in cui trovarono la morte 22 civili – tra i quali anche bambini – uccisi sul colpo da una bomba israeliana ad alto potenziale. Pochi, prima dell’offensiva “Margine protettivo” della scorsa estate, conoscevano al Zannah, un sobborgo della cittadina di Bani Suheila. Ora figura sulla mappa delle distruzioni subite da Gaza tra luglio e agosto, come una delle località più colpite, assieme a Beit Hanoun, Shajayea, Rafah e la vicina Khuzaa. Qui l’acqua viene ancora distribuita in gran parte con le autocisterne perchè non si è potuta riparare completamente la rete idrica danneggiata dai bombardamenti e dal passaggio dei mezzi corazzati.

Macerie su macerie, per chilometri e chilometri. La zona orientale della Striscia era e resta un paesaggio lunare, spezzato di tanto in tanto dalla apparizione di piccole casette di legno donate da una associazione cristiana ad alcune decine di famiglie rimaste senza casa. Si sogna la ricostruzione ma è tutto fermo. Anche l’Undp (Onu) fatica a far partire i suoi progetti e allora sono le municipalità e le stesse famiglie senza più un tetto che si danno da fare. Chi ha deciso di non aspettare più è il sindaco di Bani Suheila, Samer Abu Lebda. Ci riceve nel suo ufficio assieme ai tecnici del comune e ai rappresentanti dell’ong italiana Acs (Associazione di Cooperazione e Solidarietà) che all’inizio di maggio ha avviato, grazie ad un finanziamento della Chiesa Valdese, un progetto per la rimozione delle macerie e l’avvio della ricostruzione a Bani Suheila, Al Zannah e Abassan al Jadida.

«Il progetto è iniziato sul campo con la rapida approvazione della Chiesa Valdese che ha stanziato 40.260 euro da utilizzare per la rimozione e il riciclo delle macerie – ci dice Meri Calvelli, la coordinatrice del progetto – Avevamo già a Gaza la macchina trita sassi Apollo, messa a disposizione dal Consorzio (italiano) Trash-Mideuro che ringraziamo per l’aiuto e la generosità. Sino ad oggi abbiamo rimosso una dozzina di palazzi di alcuni piani, per un totale di oltre 30 appartamenti». Per i palestinesi di Gaza, prosegue Calvelli, «è importante non avere più davanti agli occhi le macerie di tante abitazioni distrutte. È anche una speranza di avvio della ricostruzione. Senza dimenticare che rimuovere le macerie significa anche dare lavoro a tante famiglie». Gli inerti, spiega Calvelli, vengono messi nella macchina Apollo e trasformati in un “triturato” riutilizzabile per i fondi stradali, per preparare mattoni, lastre e tegole. Ogni giorno l’enorme macchina dall’Italia produce 1500 tonnellate di “triturato” che sono poi spostate, su indicazioni delle autorità locali, verso le aree di riutilizzo immediato, come il rifacimento delle strade agricole. “Margine Protettivo” oltre ad aver distrutto o danneggiato decine di migliaia di case e ucciso oltre 2.200 palestinesi, ha anche cambiato la faccia del territorio orientale di Gaza. Le strade agricole in molte aree sono scomparse e i contadini non riescono a raggiungere i campi quando provano ad avvicinarsi al confine dove Israele impone da anni una “no go zone”. Calvelli non nasconde la sua amarezza per la decisione di non finanziare il progetto che, riferisce, avrebbe preso la cooperazione governativa italiana con la Palestina. «Ha prevalso a mio avviso il timore che venissero coinvolte le municipalità con amministratori di Hamas, ma qui si parla solo di rimozione delle macerie e queste decisioni finiscono per ritorcersi sulla popolazione civile palestinese».

Il progetto dell’Acs e della Chiesa Valdese rappresenta solo una goccia nel mare del bisogno di Gaza. «Soltanto qui a Bani Suheila sono state distrutte più di mille abitazioni – spiega Sami Abu Omar, che collabora con l’ong italiana – un numero elevato ma che rappresenta una frazione delle devastazioni subite dalla nostra terra. Le agenzie internazionali dicono che occorreranno tre anni solo per rimuovere le case distrutte e un forte impegno finanziario internazionale per ricostruire. Impegno che sino ad oggi abbiamo visto solo in piccola parte». Le restrizioni all’ingresso dei materiali per edilizia imposte da Israele – lievemente allentate negli ultimi tempi –, con la motivazione che potrebbero essere utilizzati dall’ala militare di Hamas per costruire gallerie sotterranee, si aggiungono infatti ai finanziamenti mai arrivati per miliardi di dollari, promessi lo scorso ottobre alla conferenza in Egitto dei Paesi donatori. La Banca Mondiale, qualche giorno fa, oltre ad assegnare a Gaza il triste primato della disoccupazione, ha svelato che le petromonarchie del Golfo hanno versato ai palestinesi sono una percentuale minima dei circa due miliardi di dollari assicurati in autunno. L’Arabia saudita, impegnata nella sua guerra distruttiva in Yemen, ha reso disponibili soltanto 48,5 dei 500 milioni di dollari promessi. Dei 200 milioni del Kuwait non si sa nulla mentre le ricche Dubai e Abu Dhabi hanno fatto arrivare nelle casse dell’Autorità nazionale palestinese (incaricata di ricevere i fondi e di destinarli a Gaza) appena un milione su 200. Il leader islamista turco Erdogan, che pure si proclama campione della causa di Gaza sotto assedio israeliano, sino ad oggi ha versato appena 500 mila dollari dei 200 milioni promessi. Alcuni Paesi occidentali si sono dimostrati un po’ più puntuali dei “fratelli” arabi. I britannici hanno versato l’80% dei 32 milioni promessi e gli statunitensi 84 dei 277 milioni di dollari garantiti alla conferenza dei donatori. Spagna e Italia hanno consegnato solo il 15% e il 14% rispettivamente dei fondi assicurati. La Grecia, al contrario, nonostante le sue enormi difficoltà finanziarie, ha già versato il 50% del suo impegno di 1,2 milioni di dollari.

Sulla ricostruzione punta con decisione Hamas, per recuperare il consenso perduto per il mancato raggiungimento degli obiettivi proclamati a gran voce dai suoi dirigenti nei 50 giorni del conflitto con Israele, a cominciare dalla fine del blocco israeliano. Ma anche per la recente imposizione di nuove tasse che la gente ritiene finalizzate a sostenere le strutture di sicurezza del movimento islamico al potere a Gaza dal 2007. Ricostruzione e posti di lavoro perciò sono gli obiettivi di Hamas in questa fase e il Qatar è schierato dalla sua parte, pronto a donare un miliardo di dollari. Doha che preme sul movimento islamico per tenere calma Gaza ed evitare nuovi conflitti con Israele, senza avere relazioni ufficiali con lo Stato ebraico è riuscita ugualmente ad ottenere il via libera di Tel Aviv all’ingresso a Gaza dei suoi materiali edili. Il governo Netanyahu usa il guanto di velluto con il Qatar, attraverso il quale spera di raggiungere le altre monarchie del Golfo che, afferma, hanno molti interessi in comune con Israele, a cominciare dal “contenimento” dell’Iran.