Sono giovani, multietnici, indossano la maglietta rossa e hanno fatto fuori il malefico potere gialloverde. La metafora politica della vittoria del Belgio sul Brasile nei quarti di finale di Russia 2018 sembra offrire una qualche speranza di riscatto. Bianchi e neri, insieme come fratelli e con gli stessi diritti. Dal 1985, infatti, si ottiene la cittadinanza se si è nati sul territorio belga, o alla maggiore età se almeno uno dei due genitori vi risiede da almeno dieci anni. Allo stesso modo, dopo il compimento della maggiore età è possibile ottenere la naturalizzazione se vi si risiede da almeno tre anni. L’anno dopo, ai Mondiali di Messico 1986, la nazionale di Pfaff, Gerets e Scifo raggiunge il suo miglior risultato: sconfitta in semifinale solo dall’Argentina di Maradona che poi sarebbe diventata campione.

L’allenatore è il fiammingo Thys, da molti ritenuto l’inventore della moderna difesa a cinque, il suo secondo è Sablon. All’inizio degli anni Zero proprio Sablon è richiamato dalla federazione per rimettere in piedi un sistema calcio che da allora si è sgretolato. Come raccontato da Sam Khight su Grantland, per anni l’ex viceallenatore della nazionale ha seguito tutti i tornei giovanili del paese, si è visionato migliaia di ore di filmati, poi ha sviluppato un sistema: prima dei sette anni si gioca due contro due, dai sette ai nove cinque contro cinque, dai nove ai dodici otto contro otto a metà campo, solo dopo i dodici si gioca undici contro undici a campo intero e si scoprono i lanci lunghi. Poi il paese finalmente multietnico, grazie allo Ius Soli del 1985, ha fatto il resto.

Si è formata la generazione dei fenomeni, i Courtois, Kompany, Fellaini, De Bruyne, Hazard, Lukaku e via dicendo. Con in panchina Wilmots, anche lui in campo nel 1986, le cose non sono funzionate a dovere però. I giovani Diavoli Rossi, squadra preferita degli hipster e degli scienziati del calcio, si sono schiantati contro l’Argentina ai quarti del Mondiale 2014 e contro il Galles in semifinale a Euro 2016. Quando Wilmots, passato sulla panchina della Costa d’Avorio, è riuscito nella difficile impresa di non qualificarla al Mondiale di Russia 2018, si è capito che forse il problema stava nel manico. Intanto è arrivato lo spagnolo Martinez, capace di portare il piccolo Wigan a vincere la FA Cup contro i giganti del City di Mancini, oggi chiamato a rimettere a posto i cocci della nazionale italiana.

La sapienza tattica di Martinez si è vista in come ha letto e ribaltato gli ottavi di finale contro il Giappone, e in come ha ingabbiato il Brasile nei quarti con asfissianti marcature a uomo a tutto campo. Il resto lo ha fatto questa meravigliosa generazione di talenti. Ora il Belgio affronta la Francia, altro vecchio impero coloniale che come l’Inghilterra, altra semifinalista, ha in rosa una maggioranza di giocatori di discendenza africana o caraibica. E qui il racconto delle magliette rosse della nazionale belga inizia a mostrare le prime crepe, che non sono solo in un orrendo passato coloniale fatto di deportazioni, stupri e mutilazioni, ma anche in un presente in cui il bomber Lukaku è considerato belga quando si vince, e belga di origini congolesi quando si perde, come lui stesso ha ricordato di recente.

Nel vecchio continente che lascia morire donne e bambini nel Mediterraneo, o li rinchiude nei lager perché sulla paranoia securitaria ha fondato la sua ragion d’essere, la celebrazione della pelle nera nello sport arriva solo dopo una vittoria, come ha dimostrato anche in Italia il caso delle splendide staffettiste ai Giochi del Mediterraneo. Da Owens (cui strinse la mano Hitler ma non lo fece Roosevelt) ad Alì (che gettò via la sua medaglia olimpica) lo sport non è mai stato occasione di riscatto, e gli atleti sono sempre utilizzati e blanditi per convenienza. Il sistema calcio belga va ammirato per il valore sociale della sua ricostruzione dal basso, non certo per un’integrazione che ancora non c’è. E non sarà lo sport a portare.