Il viaggio in Africa di Francesco si è concluso ieri con la visita alla moschea di Koudoukou nel quartiere Pk5 di Bangui, un posto tra i più pericolosi al mondo, un enclave dove trovano rifugio la maggior parte dei musulmani – che a seguito delle violenze scoppiate nel 2013 – non ha lasciato il Paese. In altre parole «una prigione a cielo aperto», come l’ha definito l’imam Tidiani Moussa Naibi, da circa due mesi circondata dalle milizie Anti-Balaka (le milizie a maggioranza cristiana) che bloccano i rifornimenti in entrata e i musulmani in uscita.

Dalla moschea di Koudoukou – divenuto per l’occasione luogo simbolo di riconciliazione di tutte le faide religiose o presunte tali sparse per il mondo – il papa ha lanciato un appello per la pace sociale e religiosa particolarmente rivolto a chi sotto l’egida religiosa si rende responsabile di efferati crimini contro le popolazioni civili: «Cristiani e musulmani sono fratelli. Insieme diciamo no a odio, violenza, vendetta, in particolare quella in nome di una fede o di dio stesso». E ha aggiunto: «Coloro che affermano di credere in dio devono essere anche uomini e donne di pace», notando come cristiani, musulmani e seguaci di religioni tradizionali abbiano vissuto insieme in pace per molti anni.

A United Nations peacekeeper stands guard on a minaret of the central mosque in the mostly Muslim PK5 neighbourhood of the capital Bangui, Central African Republic, during the visit of Pope Francis November 30, 2015. REUTERS/Siegfried Modola
Un tiratore scelto dei caschi blu sul minareto della moschea di Kodoukou (LaPresse)

Per le strade del Pk5, ad accogliere il papa delle periferie da un lato c’erano i tiratori scelti dell’Onu posizionati sui minareti, i mezzi corazzati armati di mitragliatrici e i caschi blu in giubbotto antiproiettile, dall’altro migliaia di musulmani in festa, tra cui quelli – giovani coraggiosi – che si sono avventurati furi dall’enclave per seguire il corteo del papa fino allo stadio (gremito) per la messa e l’incontro conclusivo con le popolazioni della Repubblica Centrafricana.

All’invito del papa hanno fatto eco le parole dell’imam Naibi: «Il rapporto con i nostri fratelli e sorelle cristiani è così profondo che nessuna manovra che cerchi di minarlo avrà successo: cristiani e musulmani di questo paese hanno il dovere di vivere insieme e di amarsi».

Affermazioni a dir poco chiarificatrici sulle violenze cosiddette interreligiose scoppiate nel dicembre 2013 (dopo la destituzione dell’ex presidente Françoise Bozizè e la presa del potere da parte delle milizie Seleka (a maggioranza musulmana)), innescate e manipolate ad arte da signori della guerra che lottano per il controllo del territorio e lo sfruttamento di risorse quali oro e diamanti.

Le violenze e gli abusi contro i civili ad opera dei Seleka (gli arabi del nord, così apostrofati dai cristiani del sud) hanno portato all’emergere delle cosiddette milizie «Anti-Balaka» responsabili della caccia all’uomo contro i civili di religione musulmana, sterminati o costretti (in decine di migliaia) ad abbandonare il sud del Paese. Che si è ritrovato diviso in due nella caccia all’altro in nome di dio.
In realtà lungi dal combattere alla stregua di ragione religiose, questi due gruppi armati vantano un dna politico tout court.

Da un lato i Seleka – coinvolti nel traffico di oro, diamanti, zucchero e bracconaggio di elefanti – rappresentano una coalizione di fazioni ribelli dissidenti di diversi movimenti politico-militari, tra cui quelle della Convention des Patriotes du Salut du Kodro (Cpsk), Convention des Patriotes pour la Justice et la Paix (Cpjp), Union des Forces Democratiques pour le Rassemblement (Ufdr), Front Democratique du Peuple Centrafricain (FdpcDPC) e Alliance pour la Renaissance et la Refondation (Arr).

Dall’altro gli Anti-Balaka (anti-machete in lingua sango) – anch’essi coinvolti nei traffici di oro e diamanti – divisi in due ale: il Front de résistance (quella maggioritaria) e les Combattants pour la libération du peuple centrafricain (ala minoritaria pro-Bozizé) legata al Front pour le retour à l’ordre constitutionnel en Centrafrique (Froca), il movimento creato in Francia dall’ex presidente della Repubblica Centrafricana François Bozizé.

L’esercito regolare, che secondo alcune associazioni per i diritti umani sosterrebbe alcune fazioni degli Anti-Balaka, è stato messo da parte dai Seleka una volta giunti al governo. Recentemente il presidente ad interim Catherine Samba-Panza ha fatto appello all’Onu affinché venga riarmato, sostenendo che le forze di pace delle Nazioni Unite e le truppe francesi (dell’Operazione Sangaris) hanno fallito nella loro missione di proteggere i civili. Richiesta per cui Samba-Panza vanta il sostegno di molti che il mese scorso sono scesi in piazza a Bangui per manifestare in favore del riarmo dell’esercito.

Insomma, si fa presto a dire guerra di religione, quando invece alla base di un brutale conflitto settario c’è un’economia fatta di traffici e connivenze politico-militari.