Come funzionano in Siria gli esperimenti di mussalaha, la riconciliazione nazionale per la quale il parlamentare dell’opposizione Ali Haydar è stato nominato ministro? Ne abbiamo saggiato le difficoltà e le speranze in occasione di una breve visita a Homs di una delegazione internazionale di attivisti per la pace, nata appunto per sostenere il movimento siriano Mussalaha (Riconciliazione), che riunisce in diverse città e villaggi autorità religiose (cristiane e musulmane) e attivisti laici, impegnati a livello individuale o di gruppo.

Fuori Homs, un po’ paese un po’ periferia, ecco Mazr’a, abitata soprattutto da sciiti. Ciuffi di rose e pergolati di viti al di là dei muretti di pietra che proteggono i cortili. A Mazr’a ci sono stati attacchi dall’esterno circa quindici giorni fa ma adesso è tutto calmo. Molte donne con abiti e foulard colorati, bambini con la bandiera siriana e di Hezbollah, e appesi qui e là i ritratti del presidente. Ripartiamo dopo i dolci e il tè, negozianti e muratori salutano lungo le stradine. Come se fossimo davvero portatori di pace.

A Homs i quartieri che attraversiamo non hanno segni di distruzione, semmai di costruzioni lasciate in sospeso, interrotte dall’emergenza. Non ci sono carri armati e del resto non ne abbiamo visto nemmeno uno nelle città e nei villaggi siriani, non avendo attraversato aree di combattimenti.

Ci aspettano padre Michel Naaman, prete greco-cattolico («sono rifugiato anche io, da Hamidiya a Zeidal!»), molto impegnato nella riconciliazione insieme allo sheikh Naimi, la cui tribù – 4 milioni di persone – è divisa fra il sostegno al governo e quello all’opposizione: molto utile quindi per negoziare scambi di prigionieri e restituzione di rapiti.

Il lavoro della Mussalaha consiste nel convincere i «ribelli» a deporre le armi. E il governo a rimuovere posti di blocco e rispettare chi smette di fare la guerra. Padre Michel è tranquillamente arrabbiato: «La Siria sta sprofondando o forse non c’è già più – accusa -, uccisa dalle armi, dalle colpe di tutti e dagli interessi di altri, con piani di divisione. Adesso ci sono armati – musallaìn – ovunque, in tanti entrano con i ribelli o con i comitati di difesa popolare».

Il governatore di Homs – anch’egli sfollato in un altro quartiere – collabora, ma insiste sulla non ingerenza: «Lasciate che la Siria risolva da sé i suoi problemi. Ogni siriano ucciso è un martire che ha pagato il prezzo della stabilità della nostra patria. Sono fiducioso, qui a questo tavolo sono rappresentate tutte le fazioni. E spero che alla fine l’esercito siriano e l’opposizione combatteranno insieme contro il nemico esterno, i mercenari estremisti che arrivano da mezzo mondo».

Nella roccaforte dell’opposizione

La mediazione con i «ribelli» si fa ad Al Wuar, considerata una roccaforte degli oppositori. Ha 750mila abitanti, ora diventati un milione per l’afflusso di sfollati da altri quartieri fra i quali Khalidiya, ancora molto caldi. Dopo un posto di blocco non c’è traccia di esercito fra i grandi palazzi in spazi aperti. I quattro soldati che ci hanno fatto da scorta da Damasco non entrano. Sono gli accordi.

Nella chiesa di Boutros, fra icone ortodosse e donne musulmane velate fino agli occhi arrivate per l’occasione, l’invito dei negoziatori di Mussalaha è: «Pensiamo che la Siria sia una, un bene prezioso di tutti. Semmai prepararsi alle elezioni, ma non c’è bisogno di uccidere e dividere». Ma il compito è difficile. Si avvicina Bassam, si dichiara dentista e membro dell’opposizione armata, nel «gruppo di Allah» o qualcosa del genere. Ma non siete un po’ in imbarazzo per l’appoggio ben poco rivoluzionario che vi danno Qatar, Arabia Saudita, Usa, Turchia? «Non sono nostri amici veramente – risponde -, ci mandano poche armi». Non volete il dialogo? «Ci armiamo per difendere i civili». La classica risposta, dalla Libia in poi.

Gli sfollati sono ospitati in un orfanotrofio sunnita per bambini e in una ex scuola di diritto. Nei due palazzi, solo tende separano una famiglia dall’altra. Ma sono stanze pulite e nettamente migliori rispetto ai campi in Libano.

Sul portone il simbolo della Red Crescent e dell’Alto Commissariato. Bambini urlano tutto il tempo: «Il popolo vuole la caduta del governo». L’uso dei minori è continuo, non solo nella propaganda ma anche in episodi di violenza diretta poi postati su internet. Mentre una donna mostra il suo neonato Hanin e molti sfollati del campo fotografano e filmano la «delegazione dell’Onu» (come tale sarà spacciata sui siti pro-opposizione), altri indicano fuori dalla finestra i palazzi circostanti: da lì, dicono, cecchini tirano sul campo. Nessun foro viene mostrato, né si ha notizia di eventuali vittime. Come far loro comprendere che con la propaganda giustificano le ingerenze che prolungano la guerra, dove tutti hanno da perdere?

Tutte le parti in guerra fanno propaganda, ma il mondo dei potenti belligeranti ascolta solo quella che gli conviene. Questa.

Al Wuar non è tutta Homs

I membri locali di Mussalaha sostengono che però i leader dell’opposizione armata accettano di negoziare con il governo. «È sbagliato prendere Al Wuar come unico scorcio di Homs che ha milioni di abitanti», ci dirà poi un funzionario di un’organizzazione che deve restare imparziale e non può esporsi. Come non ha potuto andare a Baba Armo per ragioni di sicurezza, la delegazione non può andare a Zahra, da dove arrivano molte accuse di assedi e atrocità a carico dell’opposizione. Da Zahra gli abitanti non sono mai andati via, malgrado i razzi; è la zona cristiana e alauita per tradizione e l’opposizione non è mai riuscita ad entrarci. Lì si trovano anche i rifugiati di al-Hamidiya, quartiere cristiano in pieno centro storico, sfollato all’arrivo dei gruppi armati.

Molte aree, in Siria, vivono tuttora in pace. Come Maalula – l’antica cittadina dove si parla ancora l’aramaico e dove i siriani non si sono mai fatti la guerra. O come Sweda, capitale dei drusi, area di dolci colline verdi a ulivi e aranci. Là gli unici colpi che abbiamo sentito erano il martello di un falegname e qualche tuono. Ma sulla strada da Damasco l’autista indica a destra quella che chiama la «Tora Bora della Siria»: montagne che sarebbero piene di basi di combattenti. Il confine giordano è vicino.

A Sweda i leader drusi sottolineano il rifiuto di un cammino settario e religioso frutto di un complotto. Jumana, giovane giornalista, conferma che le comunità locali vivono intelligentemente in pace. Ma non sa indicare qual è il “segreto”.

Nella Old City di Damasco, in un antico palazzo usato come luogo per incontri pubblici, giovani e adulti presentano le loro iniziative per la mussalaha. Il loro si chiama Forum per l’armonia nazionale:  «Non vogliamo che diventi un’altra Beirut, la nostra Damasco. Così il nostro slogan – davanti agli inviti di certi imam di prendere le armi contro il governo – è stato “lottare dentro la città è un peccato”. Abbiamo visto qualcuno con le armi a Shakkur Street, ma altre persone li hanno convinti a deporle». Marwa, una imprenditrice, dal canto suo è riuscita a convincere una sessantina di ragazzi a non fare la guerra. Ci sono dei gruppi che negoziano la liberazione di rapiti o detenuti. Nel chiostro del palazzo, due ragazzi hanno una maglietta con i colori della bandiera siriana. Abu Jihad, del quartiere Jaramana, che ospita molti iracheni, piange ancora la morte del fratello e del nipote in un’esplosione, un mese fa. È anch’egli coinvolto nel processo di riconciliazione, dal quale naturalmente esclude i «mercenari kamikaze che vengono da fuori a ucciderci».
Sempre nel centro storico di Damasco, fra turbanti musulmani e turbanti ortodossi, il patriarca greco cattolico Gregorius II Laham per l’ennesima volta chiede pace: «Il popolo della Siria è per la riconciliazione, le armi non sono la via, non fanno vincere, fanno solo tragedia e vittime. La chiamata a nome del popolo e delle vittime è la pace. Basta violenza, andiamo tutti al dialogo. Mandare qualunque arma all’opposizione indica volontà di fare più vittime, niente altro».