Sotto le macerie ancora fumanti del Conte bis, si rimette in moto nel Pd l’ala ex renziana del Pd che punta a cambiare il segretario. Era già tutto pronto a settembre 2020, poi Zingaretti ha vinto le regionali e il progetto si è inabissato.

Ora col governo Draghi si riapre una finestra. L’idea è sempre la stessa, dare al Pd un profilo più centrista, mettere in discussione l’alleanza strutturale con M5S e Leu, tentare di affidare il partito a una figura più dinamica come il presidente emiliano Stefano Bonaccini.

Dopo i passi falsi dei giorni scorsi, quando il tam tam sul congresso era partito troppo presto, senza neppure aver fatto partire il governo Draghi, da qualche ora l’ordine di scuderia dentro Base riformista, la corrente della destra dem guidata da Lorenzo Guerini, è cambiato: «Discutere di congresso ora è un po’ lunare», ha detto Enrico Borghi, rispondendo al capogruppo in Senato Andrea Marcucci che domenica aveva parlato della «necessità di un congresso».

L’onda riprenderà non appena il governo si sarà formato, e si misurerà su due temi fondamentali: il tasso di “draghismo” del segretario e la politica delle alleanze alle comunali. Gli ex renziani, che ieri si sono riuniti via zoom, chiedono «il pieno e convinto sostegno di tutto il Pd» all’ex presidente della Bce al grido di «l’agenda Draghi è la nostra».

Mentre al Nazareno, alla vigilia dell’ultima consultazione fissata oggi alle 15, sono più tiepidi. «Appoggio esterno? Se tutti i ministri fossero tecnici la fiducia del Pd sarebbe di per sé un appogio esterno, in quanto il Pd non farebbe parte dell’esecutivo». Non è ancora chiaro se sia una speranza o una linea.

Di fatto Zingaretti e i suoi sono pronti a seguire le indicazioni che fornirà Draghi e dunque a indicare uno o due ministri dem, politici o tecnici di area, se richiesto.
Di certo, nel papello che oggi la delegazione guidata da Zingaretti consegnerà al premier con le priorità di programma ci saranno tutti i temi che dividono il Pd da Salvini, dal fisco all’immigrazione.

Alcuni esempi: via la Bossi-Fini, sì definitivo allo Ius Culturae, sistema fiscale alla tedesca con inserimento parziale dei redditi da capitale nella base imponibili. Temi forti che spingono sull’idea che una maggioranza troppo larga possa avere vita breve e difficile. Ma non ci sarà un veto esplicito sulla Lega.

Quanto al congresso anticipato (visto che per statuto sarebbe previsto nel 2023), Zingaretti non intende chiudersi a riccio. «Dopo la formazione del governo porrò al partito l’interrogativo se e come andare avanti. Lo posso fare perché il Pd si è unito molto più di quanto non lo sia mai stato in 12 anni», ha spiegato il segretario.

«L’avevo detto prima della pandemia: serve una discussione politica vera sull’identità, i contorni, il nostro profilo culturale. Spero solo che nessuno voglia rimettere indietro le lancette dell’orologio», avverte Zingaretti, con riferimento a nostalgie per l’era di Renzi «quando il Pd era isolato e l’abbiamo preso al 15% in tutti i sondaggi».

Sul fatto che il congresso- sui temi o anche sulla leadership- ci sarà secondo il suo timing, e non imposto dalle minoranze, Zingaretti conta sul sostegno di Dario Franceschini. «Non credo che siamo di fronte ad una situazione fallimentare che richieda un congresso di emergenza», dice Franco Mirabelli, molto vicino al ministro della Cultura.

Nel fronte opposto le linee sono diverse. Ci sono i duri come Giorgio Gori che vorrebbero un rapido cambio del segretario e chi (la maggioranza di Base riformista) punta a incidere su programmi e alleanze senza chiedere (per ora) la testa di Zingaretti. Bonaccini, l’eterno candidato, si chiama fuori: «Congresso? L’unica cosa che mi interessa è sconfiggere la tragedia sanitaria e dare lavoro a chi non ce l’ha».