Al fine di favorire il trasferimento da Londra a Milano dell’ Autorità bancaria europea (Eba) Ferruccio De Bortoli (Corriere della Sera, 25/7) ha individuato un obiettivo che fa al caso dell’Italia: abolire o per lo meno sospendere la «inutile e dannosa» Tobin tax, la tassa sulle transizioni finanziarie. L’inziativa costituirebbe un segnale «molto apprezzato dagli operatori finanziari e dai mercati».

Non abbiamo dubbi, come anche sul fatto che l’ex direttore di uno dei maggiori quotidiani italiani abbia tra i suoi compiti quello di perorare una politica apprezzata dagli operatori finanziari e dai mercati. Qualche dubbio nutriamo invece sulla logica argomentativa con la quale si sostiene la necessità di abolire la Tobin Tax.

Un «nuovo balzello europeo», così lo chiama De Bortoli – tradendo una identificazione personale con la grande finanza che dovrebbe suonare imbarazzante per un giornalista del suo rango. Pesa così tanto questa tassa dello 0,2-04% a banchieri e speculatori? Egli liquida con sufficienza il fatto che la Tobin tax rappresenti un tentativo – peraltro alquanto mite – di contenere la speculazione finanziaria e neppure considera la sua potenzialità nell’ attenuare, per quanto blandamente, le disugualianze crescenti che lacerano le società contemporanee.

Di fronte alle indubbie difficoltà di applicazione che la Tobin tax incontra in Europa – dovute soprattutto al sabotaggio dei governi e del ceto politico, nonché alla cattiva stampa – si potrebbe avere certamente ben altro atteggiamento. Si potrebbe insistere sulla necessità di una sua equa applicazione universale per mettere tutti gli stati alla pari e garantire così un sicuro flusso di risorse nelle casse pubbliche. Rappresenterebbe, per lo meno, una linea di tendenza favorevole a un minimo di regolamentazione dei mercati finanziari che l’attuale disordine dell’economia mondiale reclama da tempo. Ma il giornalista guarda ai fatti correnti, alle forze e alle tendenze dominanti e ne invoca l’ossequio. La sua preoccupazione è il carattere controproducente della tassazione, che allontana capitali e investimenti dal nostro paese. E l’Italia non se lo può permettere, perché deve crescere, deve, come dicono tutti, tornare a correre. Tanto più che dopo la Brexit , Londra «studia di trasformarsi in una sorta di paradiso fiscale», con l’intenzione di abbassare la tassa alle imprese, portandola dall’attuale 20 al 15%.

Come dunque non essere realisti e ingaggiare una gara, almeno in Europa, a chi è capace di attrarre meglio capitali e investimenti al proprio interno? E allora seguendo la logica del suo ragionamento, noi potremmo suggerirgli provvedimenti che potrebbero rispondere al suo fine più efficacemente dell’ abolizione del Tobin tax.

Tra le cose che funzionano male in Italia e che sicuramente scoraggiano gli investimenti ci sono le ispezioni sul lavoro. Quanti incidenti e quanti morti nonostante le leggi e le regole esistenti? Non funzionano. Tanto vale abolirle o quanto meno renderle più elastiche.

Almeno avremmo il risultato di meno timorosi investimenti. E che dire dei piani regolatori delle nostre città, laddove ancora esistono, e dei loro lacci e lacciuoli burocratici, che neppure riescono a impedire l’abusivismo? Un più ampia deregolamentazione (di quella che già c’è) favorirebbe certamente la ripresa nel settore dell’edilizia, oggi così languente. Naturalmente non saremo così ingenui da accennare alla liquidazione dei contratti collettivi di lavoro – altro formidabile ostacolo per chi vuole investire nel nostro paese – perché ci sta pensando da tempo la Confindustria. E arrossiamo all’idea banale di rammentare la strada maestra della precarizzazione del lavoro. E’ stata battuta da tempo, com’è noto e con perseveranza. In Italia ormai si compra una persona con un voucher. Come si affitta una bicicletta. Con i risultati strabilianti nel volume degli investimenti e nel tasso di occupazione che tutti conosciamo.

Per la verità, le opinioni neoliberistiche di De Bortoli – che tuttavia colpiscono per la loro ostinazione di fronte alla vastità dei fallimenti reali – non avrebbero attratto le nostre altrettanto ovvie critiche se non fosse stato per una ragione più precisa. Come tutti i giornali italiani, domenica le pagine del Corriere erano fitte di articoli sui fatti tragici di Monaco e sull’ennesima strage a Kabul.

Pagine di dolore e di costernazione. Ebbene, strideva non poco, come un dato tragico della cultura del nostro tempo, la distanza tra le immagini e i racconti di quegli eccidi e l’editoriale del medesimo quotidiano. Che appariva come il distillato di una rimozione dell’analisi sociale contemporanea. Quello di rappresentare i fatti dell’economia come un mondo a sé, dinamiche che si esauriscono in una sfera separata dal resto della realtà. Come se l’ esaltazione della libera circolazione dei capitali, la critica dei vincoli e dei limiti imposti dal potere pubblico, l’indifferenza verso la povertà e le disuguaglianze, non avessero riflessi sulla società, la politica, la cultura, l’immaginario collettivo, i comportanti quotidiani.

Come se l’esaltazione continua e insensata della crescita, della replicazione dei rapporti dominanti, senza prospettive di mutamento, non nutrisse il nichilismo quotidiano che invade le nostre vite. Come se non ci fosse alcun legame tra l’implicita apologia del modello di società presente, con tutti i suoi carichi di assurdità e ingiustizie, di barbarie montante, e l’insensatezza dei massacri che ormai ogni giorno vogliono sfidarla. Non si può più, l’economia, questa economia, è ormai conclamata violenza.