Anni Venti del Novecento, Marburgo, una casa ospitale e un dialogo che si protrae fino all’alba tra Martin Buber e un vecchio professore. I due amici interrogano la parola «Dio». È su questa scena al tempo stesso intima e storica che Gabriella Caramore sceglie di aprire il suo nuovo libro, La parola Dio (Einaudi, «Vele», pp. 144, € 12,00). Due volte. All’inizio, con una domanda: «Ha ancora senso la parola ‘Dio’»?; alla fine, con una invocazione: «Insieme»!

Se come radioascoltatori di Uomini e profeti abbiamo partecipato a un esperimento di dialogo spirituale contemporaneo fondato sull’oralità, è oggi una lieta sorpresa l’approdo a questo «testo scritto» dalla nota autrice e conduttrice radiofonica. Un piccolo libro quanto al numero di pagine, un grande libro per la forza chiara dell’impianto: vi ha luogo, infatti, il prelievo attento di una parola, la più misteriosa, la parola Dio. In punta di piedi l’autrice ne costeggia la profonda antichità aiutandoci a configurare l’avvicendarsi delle traversie storiche e sociali in cui il vocabolo – nelle sue molte varianti – è stato pronunciato e interdetto, innalzato e tradito, dichiarato obsoleto e rimosso ma sempre nuovamente reinventato e dischiuso nelle invocazioni della speranza.

Si esce da questa lettura riorientati rispetto ai cardini del pensiero e ai termini guida della tradizione religiosa dell’Occidente che ci precede e ci accoglie: non solo perché il libro offre una sintesi rigorosa del quadro storico-filologico in cui la parola «dio» è fin qui – pericolosamente – sopravvissuta ma anche grazie al fatto che Gabriella Caramore riesce a sbrinare il nostro sguardo e a farci intravedere, oltre le stratificazioni traumatiche di ogni dogmatismo, il diritto alla ricerca spirituale come attitudine umana e come cura della vita. Hanno ancora senso, dunque, nel ventunesimo secolo, la parola «Dio» e la parola «di» Dio?
Caramore dimostra che la domanda è abitabile e degnissima. Il suo metodo argomentativo, del resto, è di gentilezza rara e tale per cui la giustapposizione di temporalità, tensioni e tesi diverse, anche le più contrastanti, non cede mai alla mera rivalità confutativa. Piuttosto, ci accompagna ad assaporare l’ospitalità della sorpresa anamorfica, la pietà del domandare e l’eccedenza di «un più di senso» ovvero di quel significato ulteriore delle Scritture che «appartiene a ciascuno di noi (…) perché a ciascuno spetta la responsabilità di non subire una lettura passiva, fatta da altri, ma di attivarsi».

Con il suo doppio movimento, di gratitudine verso la tradizione e di coraggio verso una assunzione responsabile e attualizzata del desiderio di verità, l’autrice convoca diverse immagini e figure del nostro patrimonio religioso quali guide a un ripensamento globale della spiritualità contemporanea: la dimensione profetica e quella della preghiera, soprattutto. Se la «pietra di inciampo» di ogni originaria intuizione religiosa è la deriva violenta dei poteri istituzionali, risalta «tuttavia» stupefacente, nella disamina di Caramore, la testimonianza dei profeti e delle profetesse, di quelle persone che, avendo a cuore il bene della comunità, incarnano una alternativa biografica e poetica alla logica patibolare del sacrificio: «il profeta non parla mai a proprio vantaggio (…) parla per l’intera comunità (…) l’intero genere umano e l’intera stirpe dei viventi».

Non meno suggestiva e vibrante è la torsione che l’autrice impone alle pratiche, alle forme e al senso del «vasto oceano della preghiera»: da fantasma impolverato di prescrizioni sonnamboliche a resurrezione di un gesto piccolo e altissimo, scaturigine singolare di una cura dell’«essere insieme» al cospetto della fragilità e della vita.