Nel recente Congresso del Partito Comunista Cinese, il presidente Xi Jinping ha ribadito l’importanza della ricerca scientifica per la realizzazione del «sogno cinese». Uno degli obiettivi a medio termine che si è posto Xi Jinping è proprio l’affermazione della Cina nel panorama scientifico mondiale. Xi, paladino della lottta all’inquinamento e al riscaldamento globale, si propone come uno statista quasi progressista. E ha gioco facile, quando lo si confronta con colleghi come Putin o Trump.
Tuttavia, la ricerca scientifica non richiede solo investimenti economici abbondanti, ma anche un ambiente fertile in cui le idee possano circolare e interagire. Invece, la superpotenza asiatica fatica ad applicare le regole della comunità scientifica internazionale.
Un nuovo caso di censura contro le ricerche «sgradite» riporta di attualità il tema: la maggiore casa editrice scientifica del mondo, la tedesca Springer, ha accettato di negare l’accesso dai server cinesi a un migliaio di articoli scientifici sgraditi. Ricerche perfettamente leggibili dai nostri computer non saranno più alla portata dei cittadini e dei ricercatori cinesi. Si tratta, in gran parte, di ricerche che riguardano l’isola contesa di Taiwan, le vicende ancora scottanti di Tien An Men, lo status di Hong Kong, i territori ribelli del Tibet e dello Xinjiang. La censura è stata rivelata da un’inchiesta del quotidiano economico inglese Financial Times.

LA CASA EDITRICE ha difeso la propria scelta con la Associated Press sostenendo che, se non ci avesse pensato lei a nascondere gli articoli, lo avrebbe comunque fatto il «grande Firewall», cioè l’apparato informatico che per conto del governo cinese decide quali contenuti rendere accessibili ai propri cittadini. Ma si tratta di una scusa piuttosto debole per diversi motivi.
Il primo è che in realtà il «grande Firewall» non è del tutto impenetrabile. Decine di milioni di cinesi riescono a «bucare» la censura grazie alle «virtual private network» (software che consentono di navigare in maniera invisibile ai controlli, molto usate anche da noi per le piattaforme di streaming illegale) e garantire la circolazione clandestina di contenuti vietati. In secondo luogo, Springer non è un piccolo editore: è il principale gruppo editoriale al mondo nel settore dell’editoria scientifica, e pubblica riviste del calibro di Nature o Scientific American. Avrebbe potuto mostrare una schiena più dritta. Ma l’espansione del settore accademico cinese, che da dieci anni è il paese al mondo che sforna più laureati e dottorati nelle discipline scientifiche, fa gola agli editori che cercano di accaparrarsene la fetta più grossa e non hanno intenzione di farsi nemici al governo. Un caso molto simile si era verificato solo due mesi fa. All’epoca, l’editore che si era piegato davanti alle richieste cinesi era la blasonata Cambridge University Press, che aveva accettato di censurare trecento articoli pubblicati da The China Quarterly, prestigiosa rivista di studi cinesi. Ma la casa editrice di Cambridge non è solo un’azienda: fondata nel 1534, è una delle istituzioni che custodiscono i valori liberali anglosassoni, tra i quali la libertà di espressione non è certo l’ultimo. Perciò, l’intera comunità accademica globale si era mobilitata e aveva convinto l’editore a non cedere alle pressioni cinesi e a ripristinare l’accesso alle ricerche più scomode.

UN SIMILE TENTATIVO sta cercando di far cambiare idea alla Springer, ma con scarsi risultati. Secondo uno degli autori degli articoli censurati, Jonathan Sullivan, «è il simbolo dell’impreparazione occidentale di fronte all’espansione esterna della Cina». Sullivan, direttore del China Policy Institute dell’università di Nottingham, è anche nel comitato di redazione di China Quarterly.
Una dei punti di forza della censura digitale cinese è la sua opacità: la severità con cui vengono giudicati i contenuti varia secondo il momento e in base a criteri oscuri.
Sembra però evidente che negli ultimi tempi la censura si sia fatta più stretta. Sui media e sulle piattaforme online faticano a circolare contenuti di natura politica, ma anche video e immagini che riguardano la comunità Lgbtq o altri aspetti della cultura occidentale giudicati troppo «disinvolti» per il pubblico cinese. Recentemente, è stato annunciato un nuovo giro di vite a partire dal prossimo febbraio contro le «virtual private network», finora silenziosamente tollerate. Le aziende locali subiscono in silenzio la censura, pena il ritiro della licenza necessaria a operare. Secondo il Wall Street Journal, nelle società che gestiscono i principali siti web cinesi i dipendenti addetti alla gestione dei servizi sono meno di quelli incaricati di controllare che i propri utenti non violino le regole.

DALLA PARTE DEL GOVERNO, invece, le stime (non ci sono cifre ufficiali) parlano di cinquantamila funzionari di polizia impegnati a controllare il traffico dei dati. Nel 2014, un gruppo di ricerca statunitense ha cercato di capire le strategie dei censori, disseminando il web di identità fittizie e monitorando la circolazione dei loro contenuti. Il risultato, pubblicato sulla rivista Science, suggeriva che in realtà i cittadini cinesi godono una notevole libertà di esprimere e leggere giudizi negativi sui membri dell’establishment politico. La censura, però, opera in modo sistematico allorché si passa dalla critica individuale all’azione collettiva e rende impossibile proporre iniziative di opposizione e organizzare movimenti di protesta.
Anche se, come si vede, la mancanza di libertà di espressione va ben al di là dell’accademia, nell’ambito scientifico la censura appare più grave perché rischia di compromettere la partecipazione stessa della Cina alla ricerca di frontiera. La comunità scientifica, infatti, dalla fisica alla biologia, è una rete integrata a livello internazionale, spesso ben al di là delle stesse frontiere geopolitiche. Non è raro vedere collaborare scienziati provenienti da Paesi in conflitto tra loro.
Molti accademici, invece, lamentano la difficoltà di collaborare con i colleghi cinesi. Non si tratta solo di garantire l’esercizio dei diritti democratici, ma spesso di questioni più pratiche: dalla Cina è arduo accedere ai dati se sono registrati su server all’estero, e anche una semplice presentazione in Power Point può diventare problematica se c’è bisogno di «scaricarla» dalla rete. Alla rivista Science, un astronomo cinese ha dichiarato (anonimamente) che le difficoltà pratiche scoraggiano gli scienziati a cercare lavoro in Cina. Il caso Springer, però, dimostra che la Cina ha la massa critica per cambiare le regole della comunità, se serve.

LA RECENTE ESPLOSIONE del mercato cinese dei video online sta facendo aumentare ulteriormente il malcontento degli operatori dei media contro la censura, che rallenta il traffico dei dati e provoca la perdita di potenziali utenti e profitti. Tuttavia, secondo altri analisti, il «grande firewall» è stata anche un’abile mossa commerciale: colpendo soprattutto le aziende straniere, che una dopo l’altra hanno accettato le regole governative, ha consentito l’affermazione di società locali che forniscono gli stessi servizi dei colossi statunitensi come Alibaba (l’Amazon cinese), WeChat (il loro whatsapp), Baidu (il concorrente di Google), Weibo (analogo a Twitter) o Qzone (Facebook con gli ideogrammi). Finché dura l’alleanza tra mercato e censura, il lungo impero di Xi Jinping non cambierà direzione.

 

SCHEDA

l «grande Firewall» è il nome dato all’insieme di tecnologie con cui il governo cinese filtra le informazioni accessibili via internet dai server locali. I metodi utilizzati sono diversi: si va dal blocco di interi domini alla cancellazione di singoli contenuti (come post su social network) segnalati da software di analisi sulla base di alcune parole chiave. Questi filtri, tuttavia, possono essere aggirati grazie alle Virtual Private Network (Vpn), sistemi informatici che permettono di creare reti private simili a quelle interne alle aziende, ma sfruttando i server pubblici accessibili via web. Le comunicazioni all’interno delle Vpn sono criptate e diventano inaccessibili dall’esterno, nonostante viaggino sulla stessa infrastruttura utilizzata per le comunicazioni pubbliche. Si calcola che gli utenti cinesi collegati a Vpn siano decine di milioni e il sistema è molto utilizzato anche dai ricercatori. Le Vpn sono comuni anche nei paesi democratici, perché consentono di accedere a contenuti «pirata» come film o serie tv diffuse in streaming illegalmente.