Lo scorso mercoledì 1 ottobre Martin Wolf ha pubblicato sul Financial Times un articolo sulle ragioni che fanno dell’ineguaglianza un vero e proprio freno all’economia. Per dimostrare l’impatto economico delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito e del capitale, in particolare una domanda debole e la regressione dei livelli di educazione, Wolf si basa su due studi, uno di Standard & Poor’s e l’altro di Morgan Stanley, due istituzioni che difficilmente possono considerarsi di sinistra. Il quadro che emerge da queste analisi, che si riferiscono agli Stati Uniti a partire dagli anni Novanta, è tale da portare l’autore a concludere che in un’economia basata sul debito i costi maggiori dell’aumento delle diseguaglianze economiche e formative sono l’erosione dell’ideale repubblicano della «cittadinanza condivisa», in altre parole il rischio di deflagrazione economica e sociale del capitalismo medesimo. Curioso è il fatto che queste considerazioni vengano fatte sulle pagine dello stesso quotidiano finanziarioche, in occasione della pubblicazione inglese del libro di Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo (oggi in italiano grazie ai tipi della Bompiani, traduzione di Sergio Arecco, pp. 928, euro 22), aveva cercato di smontare in modo grottesco una delle tesi centrali del libro, la tendenza all’aumento verso l’alto della concentrazione della ricchezza. Basti questo per sottolineare l’importanza dello studio di Piketty il cui merito principale, oltre al terremoto scatenato dentro l’accademia egemonizzata dal pensiero neoliberale, consiste nell’aver descritto, «con precisione atroce e difficilmente confutabile», come ha scritto David Harvey (Riflettendo su ’Capital’ di Piketty, in commonware.org), l’evoluzione nel corso degli ultimi due secoli della disuguaglianza sociale rispetto sia alla ricchezza sia al reddito.

La contraddizione centrale

Dalla sua pubblicazione in Francia nel 2013, il libro di Piketty è stato più volte recensito, ma è comunque utile riassumere in modo sintetico i risultati principali del suo studio. In particolare la conclusione teorica secondo cui, quando il tasso di rendimento del capitale (r) supera il saggio di crescita del reddito (g), le disuguaglianze aumentano fino a risultare «incompatibili con i valori meritocratici e i principi di giustizia sociale su cui si fondano le moderne società democratiche». Quando il «divenire rentier» del capitale a scapito di coloro che non possiedono altro che il proprio lavoro, aggravato dalla successione ereditaria della ricchezza accumulata, riproduce il capitale più velocemente dell’aumento della produzione, «il passato divora il futuro», e la polarizzazione della ricchezza e del reddito cresce a dismisura. Sull’arco di duecento anni questa è stata la «regola», salvo nel periodo tra le due guerre mondiali che, a fronte dell’Urss come competitor, permisero per i trent’anni «gloriosi» del secondo dopoguerra l’introduzione di politiche di welfare state e di redistribuzione della ricchezza. Nel periodo tra il 1920 e il 1980, il rendimento del capitale ha infatti conosciuto una relativa diminuzione (al 2,5/3,5%), salvo poi ristabilirsi attorno al 4-5% a partire dal 1980, lo stesso tasso del periodo tra il 1870 e il 1910, con una tasso medio di crescita del reddito pari a 1-1,5%.
Ciò che resta opaco nella tesi centrale dell’analisi di Piketty è però proprio la causa della diseguaglianza tra rendimento del capitale e crescita del reddito. Lo dimostra bene Giorgio Gattei in un suo articolo, Quel capitale pericoloso: tutte le formule di Piketty (in «Economia e politica», rivista online di critica della politica economica): «la percentuale di reddito che va al capitale aumenta se cresce il tasso di rendimento e/o la propensione al risparmio, mentre diminuisce se aumenta il saggio di crescita del reddito». Si tratta di una formula tautologica che permette di descrivere i sintomi di un processo assai più profondo e complesso. Oltretutto, il fenomeno descritto da Piketty non può che essere temporaneo perché la parte dei benefici del capitale non può aumentare linearmente a dismisura, con la metà e oltre del reddito prodotto che va a rendimento del capitale, come Piketty esemplifica per dimostrare quel che potrebbe accadere entro la fine del XXI secolo. Dato che i lavoratori non vivono di aria, esiste un limite estremo di remunerazione percentuale del capitale, ed è un limite storicamente determinato.
Certo, le guerre e le rivoluzioni sono servite, e servono tuttora, per svalorizzare il capitale e in tal modo ridurre sperequazioni dei redditi alla lunga insopportabili. Ma c’è qualcosa di ancor più «costitutivo» che spiega l’origine della diseguaglianza tra rendimento del capitale e rendimento del reddito, ed è il ruolo dell’accumulazione orginaria.

Condivisione in salsa liberista

All’origine della proprietà privata e dell’accumulazione del capitale si trova l’appropriazione violenta dei commons, una appropriazione-recinsione del comune, come ha spiegato magistralmente Sandro Mezzadra (si veda il suo ultimo libro, scritto con Brett Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, il Mulino), che si ripete nel tempo perché la tendenza del capitale è quella di recintare di volta in volta le forme della cooperazione sociale nella sfera della produzione e in quella della riproduzione-conservazione della vita. Il divenire rendita del capitale descritto da Piketty è un processo storico di lotta tra appropriazione del comune, estrazione di valore-ricchezza e produzione sociale di nuovi spazi di cooperazione e condivisione. È questo che fa del capitale un rapporto sociale, una «processualità relazionale» (David Harvey) di creazione artificiale di scarsità (ad esempio del lavoro, ma anche dei beni immateriali) tale da permettere la realizzazione di rendite crescenti. In assenza di questa definizione del capitale, lo studio di Piketty rischia di limitarsi ad una «storia del patrimonio», indipendentemente dall’uso capitalistico di questo stesso patrimonio.
Ha quindi ragione Russell Jacoby, nel suo Il pragmatismo dell’utopia (apparso su Le Monde Diplomatique e ripreso da il manifesto, 22 agosto 2014), a mettere in evidenza l’assenza del lavoro nello studio di Piketty, il fatto che il capitale «ha bisogno della forza lavoro e al tempo stesso cerca di farne a meno», creando una popolazione operaia eccedente relativa. Non solo il lavoro, le sue trasformazioni nel tempo storico, non sembra interessare l’economista francese indifferente ai movimenti sociali, «vaccinato a vita contro i discorsi anticapitalistici convenzionali e triti» (Piketty). Nella sua definizione di capitale (denaro, terreni, immobili, fabbriche e macchinari, attivi mobiliari) è assente il capitale cognitivo umano, quel capitale costituito da saperi, conoscenze, relazioni, cooperazioni, che permette di spiegare la concentrazione geografica della ricchezza ma anche il suo aumento e la sua diffusione come fattori di crescita. Un fattore cruciale, che svela la contraddizione tra rendimenti crescenti e concorrenza pura di matrice neoclassica (David Warsh, La conoscenza e la ricchezza delle nazioni. Una storia dell’indagine economica, Feltrinelli).

Il debito e le disuguaglianze

Rendimenti crescenti che non sarebbero possibili senza il denaro, senza l’accesso al credito bancario e le diseguaglianze generate dall’economia del debito, come dimostra l’economista tedesco Daniel Stelter (Die Schulden im 21. Jahrhundert, Was ist drin, was ist dran und was fehlt in Thomas Pikettys DAS KAPITAL, Frankfurter Allgemeine Buch). Qui davvero si tocca una delle maggiori debolezze dell’opera di Piketty, l’assenza totale dell’analisi del debito come fattore autonomo e in sé decisivo nell’aumento delle disuguaglianze nel corso degli ultimi trent’anni. Nell’analisi di Stelter, le disuguaglianze del patrimonio provengono dalla politica monetaria a bassi tassi d’interesse orchestrata dalle banche centrali e dall’aumento dei debiti. L’attacco sistematico al salario, con l’aggiunta della caduta del muro di Berlino e l’apertura della Cina al capitalismo, ha permesso la crescita economica grazie all’indebitamento privato. I debiti, non solo negli Usa, sono schizzati verso l’alto per sostenere l’aumento dei redditi e in Europa sono aumentati i trasferimenti sociali relativamente alla diminuzione del prelievo fiscale sugli alti redditi e sul capitale. Il debito è il problema chiave perché il debito concentra il rischio su quelli che meno possono sostenerlo, e quando il patrimonio in cui si è investito (come nel caso dei mutui subprime) si svaluta, aumenta la concentrazione delle perdite e la disuguaglianza di ricchezza. «Il debito introduce una non linearità nel sistema economico, che i modelli keynesiani trascurano» (Atif Mian Amir Sufi, House of Debt. How They (and You) Caused the Great Recession, and How We Can Prevent It from Happening again, The University of Chicago Press).
Forse il vero merito de Il Capitale di Piketty risiede nel costringere un po’ tutti a pensare marxianamente, a cercare in ciò che egli non dice ciò che noi vogliamo vedere per lottare.