Nella primavera del 1969, a Tokyo come in molte altre parti del Giappone, il sentimento di rivolta contro le vecchie generazioni e lo status quo, e la voglia di uscire dalle proprie vite individuali per immergersi nell’onda che stava sconvolgendo l’arcipelago, è forse al suo apice. Le proteste studentesche si incrociano e alleano con quelle contadine contro l’esproprio delle terre per la costruzione dell’aeroporto di Narita, e con la rabbia contro la guerra in Vietnam.
È in questo clima sociale e politico che comincia Tomerareru ka, bokutachi wo (Provate a fermarci!) lungometraggio che ripercorre quattro anni di attività all’interno della Wakamatsu Production, la casa di produzione creata da Koji Wakamatsu: un collettivo che proprio in questo breve lasso di tempo avrebbe dato alla luce alcuni dei migliori film giapponesi del periodo, mascherandoli con l’etichetta di pink eiga.

IL FILM DIRETTO da Kazuya Shiraishi ed interpretato fra gli altri da Arata Iura e Hiroshi Yamamoto – che collaborarono con Wakamatsu ai suoi ultimi lavori prima della sua prematura morte nel 2012 – è in questi giorni nella sale giapponesi e ha, come era prevedibile, provocato delle reazioni discordanti.
Tomerareru ka, bokutachi wo non è un biopic, ma è piuttosto costruito attorno al punto di vista della giovane Megumi Yoshizumi, ragazza che quasi per caso entra a far parte del gruppo e che lentamente si conquista la fiducia dei compagni. Per gli amanti del cinema giapponese degli anni della cosiddetta Nuberu baagu (la nouvelle vague giapponese), guardare il film dà la sensazione di ritrovare sullo schermo delle vecchie conoscenze: oltre a Wakamatsu e Masao Adachi compaiono infatti nelle sessioni di bevute nei piccoli localini di Shinjuku anche Atsushi Yamatoya, geniale regista e sceneggiatore, e Nagisa Oshima di cui Wakamatsu produrrà a fine decennio L’impero dei sensi.

LE INTERPRETAZIONI di molti dei protagonisti sono a dire il vero un po’ mitizzate e di parte: quella di Arata nei panni di Wakamatsu è quasi caricaturale, ma paradossalmente rende abbastanza bene l’idea del personaggio, non molto dissimile dal Wakamatsu che abbiamo avuto l’occasione di incontrare ed intervistare più di qualche volta per «Il manifesto» dal 2005 in poi. Certo il lungometraggio non si inoltra nelle intricate e spinose questioni legate al collettivo, come il trattamento riservato alle donne del gruppo – sulla posizione e il ruolo delle donne nel cinema giapponese, anche quello contemporaneo, ci sarebbe in verità da scrivere un’intera enciclopedia.

NONOSTANTE tutto ciò, Tomerareru ka, bokutachi wo, (dove bokutachi significa non a caso «noi» al maschile) risulta un lavoro molto interessante specialmente per alcuni motivi. Senza rivelare troppo della trama si può certamente affermare che la solitudine della protagonista Megumi e i suoi travagli interiori salgono prepotentemente e tragicamente in superficie nell’ultima parte del film. È proprio qui che il personale ed il politico si intrecciano, mettendo in luce molte delle scelte fatte dal gruppo intorno al 1972-73, periodo importantissimo per il cinema giapponese ma anche per i movimenti di protesta e ribellione dell’arcilepago. Il viaggio di Wakamatsu e Adachi in Palestina con la decisa presa di posizione a favore della causa palestinese e la realizzazione di Red Army/PFLP, film proiettato in giro per il Giappone con il famigerato autobus rosso, è il motivo principale della scelta epocale di Adachi di andare a combattere al fianco del popolo palestinese per più di trent’anni – ma dietro, lascia intendere il film, ci potrebbero essere anche altri motivi.

IL LUNGOMETRAGGIO finisce là dove la rabbia e le disillusioni di una generazione di artisti verso la politica e la possibilità di cambiare la società prendono le strade più diverse, Adachi va in Palestina e Wakamatsu comincia a fare un cinema più violento e meno gioioso. Uno dei pregi maggiori del film è quindi quello di mettere in immagini in modo credibile – ricordiamo che si tratta di una storia di finzione basata su fatti realmente accaduti – un punto di vista contemporaneo su fatti passati, l’indissolubile relazione fra passione politica e sfera privata – plasmata dalla dimensione collettiva e dalla moltitudine da cui prende forma.