Asfalto e casermoni di una periferia uguale a tante, il verde è un bordo segmentato dalle gru e il mare la striscia di un orizzonte che appare lontano. Lupino, quartiere di Bastia, dove la Corsica dei vacanzieri è un altro mondo, e l’estate per gli adolescenti che lo abitano è un tempo morto, che scivola via a fatica, sempre uguale. È tra di loro che ha messo la sua macchina da presa Francois Farellacci, corso anche lui, e insieme a Laura Lamanda, che ha scritto la sceneggiatura (premio Solinas doc 2013), autore di Lupino, premiato al Festival Filmmaker di Milano dalla Giuria dei giovani.
In quel quartiere «ai margini» Farellacci aveva già girato un altro film ma qualcosa nella relazione costruita con i ragazzi era rimasto a suo avviso imespresso. Forse la loro rabbia che vagabonda nelle strade assolate, tra le molte sigarette, i reciproci insulti, le battute sessuali. O quella violenza con cui maneggiano i loro corpi, e i loro sentimenti mai svelati rincorrendo un pallone o il bus che la sera va a porto.
«L’inverno è gelato, l’estate è di fuoco», ragazze, un bacio o un pompino, capanne di legno che sono un rifugio distrutto da chi ti vuole male. E il coltello in tasca, gelosamente nascosto, un fucile appeso al muro che uccise un uccello, ma non l’ho fatto apposta. Silenzi, frasi interrotte metà, la ribellione che non sa di essere, come un calcio punk nell’immagine sgranata a tutto volume. Produzione indipendente, sostenuta dal crowfunding – con il collettivo corso stanley white, autore già di Les Apaches di Thierry de Peretti – Lupino si avventura nell’adolescenza senza romanzo di formazione, ma con pudica dolcezza entra in quello spazio seguendone le impennate del cuore. Incontro gli autori a Milano, dopo la proiezione, entrambi da qualche mese vivono ora a Parigi.
Come nasce l’idea di Lupino?
François Farellacci: Nel 2012 ho girato in Corsica un documentario intitolato L’ile de morts e nell’ultima settimana di riprese ho incontrato dei giovani ragazzi, i futuri protagonisti di Lupino. Riguardando quelle scene, ho sentito emergere qualcosa di molto potente e Laura ha spinto affinché tornassimo a Lupino e riprendere a filmare questi ragazzi. Fragilità ed energia, una violenza mescolata alla tenerezza, ho capito che questo paradosso mi affascinava.
Laura Lamanda: Non sapevamo cosa nascondesse questa vitalità. Per quanto mi riguarda era in primo luogo una fascinazione filmica. Mi piaceva molto come Francois li filmava e come loro si muovessero davanti alla macchina da presa ma non avevo idea dell’origine di questa inquietudine. Francois ha filmato in diversi tempi, non c’ero durante le riprese e visionavo in un secondo momento il girato. Vedendo la prima tranche abbiamo capito su quale materiale stessimo lavorando. Siamo rimasti molto scossi dal disagio ma abbiamo mantenuto una forte fascinazione, diventata poi empatia, con uno sguardo che cerca di collocare un dolore.

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François, che reazione hanno avuto i vostri protagonisti quando gli hai proposto di girare un film su di loro?
Non ho visto esaltazione anche perché vi è una sorta di pudore orgoglioso molto tipico dell’isola. Sono stati disponibili anche perché non sono molto abituati ad essere guardati e a entrare in relazione con adulti maschi. I loro genitori hanno dato la disponibilità anche se sotto forma d’indifferenza.
Come si svolgeva la quotidianità delle riprese?
F.F: Abbiamo passato giornate lunghissime col fonico insieme a loro, stando molto attenti a non diventare mai loro amici. È ovvio che quando arrivi con una macchina da presa, davanti a persone che hanno bisogno d’attenzione, hai un potere fortissimo che devi smontare. Non puoi entrare nelle conversazioni, negli scherzi. Era molto difficile stare accanto a loro per ore e ore senza parlare ma siamo diventati una presenza affettuosa, costante, critica ma non giudicante. Ho girato poco materiale usando focali corti, la distanza fisica fra me e loro era quella, non è stato «rubato» nulla. Credo che un documentario debba fondarsi su questo tipo di relazione
Da dove provengono gli home movies che vediamo durante i titoli di testa? Sembrano quasi filmati d’infanzia dei vostri protagonisti
F.F. Sono comparsi in modo causale e girati da un abitante del quartiere. L’ho conosciuto tramite amici del posto e mi ha voluto mostrare delle immagini che non aveva mai mostrato a nessuno. Mi ha chiesto di prenderle e queste immagini le ho utilizzate perché, a grandi linee, sono state girate agli albori del quartiere Lupino.
L. L. Mi colpisce sempre molto rivedere quei bambini, vedere esseri indifesi schiacciati dall’ambiente, è come vedere i nostri protagonisti da piccoli in questo luogo che li sovrasta.

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Quindi il disagio esistenziale che abbiamo provato tutti è qualcosa, nel loro caso, aggravato dall’ambiente in cui vivono?
L. L. Tutti gli adolescenti sono inquieti. Sia io sia François abbiamo avuto delle esperienze molto vicine a questi ragazzi. Io sono cresciuta nella periferia milanese e ho visto determinate cose e ho continuato a vedere, ovunque, che la provenienza sociale mi limita. Forse come adulta, te ne fai una ragione, trovi qualcosa per incanalare la rabbia ma quando sei adolescente non puoi. Esistono dei percorsi fortunati, degli incontri che ti regalano uno sguardo analitico sulla realtà. Più invecchio e più sento empatia e dispiacere nel vedere un ragazzo intrappolato in una situazione sterile. Se non ti insegnano a fare qualcosa della rabbia può essere distruttivo. Stanno male e non sanno perché, sono intrappolati ma non sanno dirtelo.
F. F. Le loro famiglie sono molto violente e in più hanno una condizione istintiva di essere legati a un destino in quel posto. La precarietà sociale si costruisce su una precarietà affettiva gigantesca. I miei protagonisti vengono tutti da situazioni familiare disastrate: padre in prigione, alcool ,droga, vicende politiche e mafiose dell’isola legate all’indipendentismo. La loro base intima è molto fragile e le difficoltà s’incarnano in un quartiere separato dal centro città Non ci sono spazi comuni, caratteristica di tutte le aree periferiche, non puoi andare a piedi, i ragazzi errano perché faticano a trovare un posto fisico per fare le tipiche azioni della vita quotidiana di un adolescente.