Alla fine la colonizzazione israeliana dei territori palestinesi occupati ha prodotto il risultato previsto da tutti. Il negoziato bilaterale ripartito a luglio ora è fermo. Israeliani e palestinesi non hanno in programma nuovi colloqui. La notizia è giunta dopo che i due negoziatori palestinesi, Saeb Erekat e Muhammad Shtayyeh, avevano offerto le dimissioni per protesta contro gli annunci di nuovi progetti edilizi di Israele. «Possiamo convincerli a tornare, oppure formare una nuova delegazione». L’esito sarà sempre quello. Saeb Erekat, in una dichiarazione alla tv della Reuters, ha precisato che i colloqui si sono fermati una settimana fa «alla luce degli annunci di nuove colonie».

Non sono bastate ai palestinesi le critiche europee a Israele e le parole dure del segretario di stato americano Kerry. Israele in ogni caso non si ferma anche se martedì sera il premier Netanyahu ha dovuto cancellare, per ora, il piano di costruzione di altre 20mila case nelle colonie della Cisgiordania. Il primo ministro ha bloccato anche l’attuazione del progetto E1, un corridoio di colonie tra Gerusalemme e l’insediamento di Maale Adumim. «Occorre riconsiderare tutti i passi per la valutazione dei progetti di costruzione», ha scritto il premier, aggiungendo di vedere un confronto non necessario con la comunità internazionale nel periodo in cui Israele si è impegnato a persuaderla a trovare un migliore accordo con l’Iran». L’attenzione della comunità internazionale, ha aggiunto, «non deve essere allontanata dal nostro principale obiettivo: impedire all’Iran di raggiungere un accordo che gli permetta di proseguire con il programma nucleare». La colonizzazione perciò è solo sospesa non è terminata. La leadership palestinese comunque si dice soddisfatta. Il capo negoziatore Saeb Erekat, prima di dimettersi aveva minacciato Tel Aviv di riprendere in mano le richieste di adesione dello Stato di Palestina a organismi internazionali per denunciare le violazioni israeliane delle leggi internazionali per i Territori occupati.

A generare tensione è anche l’approvazione da parte del governo Netanyahu di un piano per la creazione di una nuova città ebraica nel deserto del Neghev. Rischiano i 600 residenti del villaggio beduino di Umm Al-Hiran, che sorge dove si pianifica la costruzione del nuovo insediamento. Il progetto è parte del Piano Prawer, che prevede l’evacuazione (anche con la forza) dal Neghev delle comunità beduine che vi risiedono da decenni, alcune arrivate dopo il 1948, altre residenti nell’area da ben prima la creazione dello Stato di Israele. Il Piano Prawer prevede la distruzione di 45 villaggi non riconosciuti da Tel Aviv, l’espulsione e il trasferimento di 40-70mila beduini e la conseguente urbanizzazione in “township”. Infine, la confisca di terre. Il 30 novembre si terrà un nuovo evento nazionale, l’International Day of the Neghev – con manifestazioni anche a Ramallah,  Gaza City e in alcune città estere.

Una manifestazione si è tenuta ieri anche in Israele per protestare contro l’uccisione del soldato Eden Attias nella stazione centrale degli autobus di Afula (Galilea). Decine di persone sono sfilate scandendo slogan ostili ai palestinesi e assicurando che «questo sangue non è stato versato invano». Una dirigente del Likud, la viceministro dei trasporti Tzipi Hotoveli, sostiene che l’attentato è da imputarsi al presidente dell’Anp Abu Mazen «ed alla sua persistente campagna di incitamento contro Israele». Altri manifestanti hanno puntato l’indice contro lo stesso governo Netanyahu che, hanno detto, non usa il pugno di ferro contro i palestinesi.