Sul caso Regeni l’ondata di critiche piovuta sulle menzogne del Cairo ha smosso i vertici del paese: nel fine settimana è giunta una parziale retromarcia in merito alla palese montatura della banda criminale sgominata nella capitale.

Il primo a parlare era stato il ministro degli Esteri, Samer Shoukry: «L’identificazione e l’incriminazione dei responsabili dissiperà le nuvole – ha detto domenica in un’intervista al quotidiano Al-Youm – Proverà che la giustizia egiziana funziona. [L’Egitto] lavora con trasparenza e vuole collaborare con l’Italia, non abbiamo interesse a che gli italiani abbiano dubbi».

A ruota segue il dicastero che più di tutti è considerato il responsabile delle indagini: il portavoce del Ministero degli Interni, Abu Bakr Abdel Karim, in un’intervista alla Mbc, ha fatto un passo indietro affermando che la ricerca degli assassini di Giulio Regeni è ancora in corso. Una sconfessione, seppure indiretta, delle precedenti dichiarazioni e di quelle foto – pubblicate sulla pagina Facebook del Ministero giovedì notte – che mostravano gli effetti personali del giovane ricercatore italiano, ritrovati – secondo la polizia – in casa della sorella del capobanda, Tarek Abdel Fattah. Il ritrovamento, ha spiegato, non incolpa necessariamente i quattro malviventi ma apre a nuove strade per catturare i veri colpevoli.

«Non abbiamo modificato le nostre posizioni – ha tenuto a precisare Abdel Karim – Non c’è stato alcun cambiamento dopo le pressioni del governo italiano». Sembrerebbe che avevamo tutti capito male: quelle fotografie, l’esecuzione dei quattro criminali, l’indiretta attribuzione della responsabilità nell’omicidio della gang, non avevano chiuso il caso, dice oggi il governo egiziano. Salvataggio in calcio d’angolo.

Interviene anche lo stesso ministro Ghaffar, graziato dal rimpasto di governo perché fedele esecutore della strategia interna del presidente al-Sisi. Se da una parte ribadisce «piena cooperazione con gli inquirenti italiani», dall’altra imputa le difficoltà sul caso Regeni a «campagne ostili lanciate dai media che sollevano dubbi sugli sforzi del Ministero».

E mentre ieri il procuratore generale Ahmed Nabil Sadek confermava al capo della Procura di Roma Pignatone la consegna di tutta la documentazione il prossimo 5 aprile, dalla procura di Giza uscivano indiscrezioni sull’allargamento delle indagini ad altri possibili sospetti, dopo che il ruolo della banda era stato ridimensionato dalle dichiarazioni dei familiari di Abdel Fattah: la sorella e la moglie hanno negato un suo ruolo nel rapimento e il possesso della famosa borsa rossa.

Chi siano questi altri sospetti non è dato sapere, così come restano dubbi sull’intenzione dell’Egitto di abbadonare finalmente la pista della criminalità comune, possibilità smentita dalle lunghe torture subite da Giulio e ammesse dalle stesse autorità egiziane.

La marcia indietro del Cairo è solo parziale: se la storia della banda criminale non ha attecchito, perché decisamente poco credibile, si nega di averla ufficialmente formulata e si gira pagina. A preoccupare è il pericolo che apparentemente pesa sulle relazioni con l’Italia.

Il ministro degli Esteri Shoukry lo ha detto chiaramente: l’omicidio di Giulio ha avuto un impatto negativo sui rapporti bilaterali. «L’Italia è un partner importante: ciò che sta accadendo è un caso isolato, non merita questa esagerazione. Ci sono molti interrogativi sulle circostanze della scomparsa [di Regeni], il cui corpo è stato ritrovato proprio il giorno in cui il ministro italiano per lo Sviluppo Economico era al Cairo con una delegazione».

La stessa osservazione era stata mossa dal presidente al-Sisi nell’intervista rilasciata a Repubblica. Un modo per preparare il terreno ad un’altra “verità”, ovvero che dietro il brutale omicidio di Giulio ci siano poteri paralleli interessati a destabilizzare l’Egitto del generale golpista? Dopotutto da settimane media pro-governativi discutono dalle colonne dei giornali e le poltrone dei talk-show del possibile coinvolgimento di movimenti anti-statali, in alcuni casi arrivando a paventare un complotto tra Unione Europea e Fratelli Musulmani per indebolire al-Sisi.

Da fuori non sembra, però, che le strette relazioni economiche, commerciali e strategico-militari tra Egitto e Italia traballino. È vero che il premier Renzi ha ribadito di non aver intenzione di accettare verità di comodo e che il mondo politico si è subito sollevato di fronte alle palesi falle della versione della gang criminale. Ma nessun atto concreto è stato preso, che sia il ritiro dell’ambasciatore o la sospensione anche solo temporanea dei fruttuosi business comuni.

Eppure una politica di isolamento del regime di al-Sisi sarebbe quanto meno morale: il caso di Giulio non è affatto «isolato», come millantato da Shoukry, ma è parte di una violenza istituzionalizzata, di una repressione di Stato che colpisce ogni anno migliaia di egiziani. Basta guardare ai dati dello scorso anno: oltre 40mila prigionieri politici; più di 1.700 desaparecidos per mano dei servizi segreti, secondo i dati raccolti dall’Egyptian Commission for Rights and Freedom; 600 casi di torture documentati dal Nadeem Center; circa 200 organizzazioni non governative, associazioni di attivisti e della società civile sotto inchiesta con l’accusa di ricevere fondi dall’estero. E sono dati limitati ai casi noti, conosciuti, denunciati.