Un inizio di dibattito sembra riaprirsi a sinistra. Flebile e ancora fine a se stesso (dei congressi di Sinistra italiana e Rifondazione, più volte annunciati, si è persa traccia; anche il quadro sociale è lungi dall’esprimere una domanda di sinistra), ma qualcosa torna a muoversi.
Mi riferisco alla “rete ecosolidale”, annunciata in una assemblea online sabato 24 luglio, ma anche all’appello A sinistra, ci vorrebbe un partito, che gira in rete da qualche settimana. Già i due termini “rete” e “partito” dicono molto dei contenuti.

I promotori della rete sono della più diversa provenienza: sinistra radicale organizzata, partito democratico, ex-5 Stelle, amministratori locali, compagni e compagne di base. Un nodo politico non sciolto li tiene insieme.
Mi riferisco alla mancanza di un giudizio sul governo in carica, agli equivoci relativi alle prossime elezioni regionali ed amministrative, ma circa anche la posizione sul referendum sul taglio dei parlamentari, quella rispetto all’Europa e al Mes. E poi anche l’ambiguità sulle nuove politiche sociali e del lavoro, sui progetti di abolizione dei decreti Salvini sulla “sicurezza”, su quelli di autonomia regionale, sulla legge contro l’omofobia, ecc. E infine, problema dei problemi: quale nuova forma politica per la sinistra italiana?

Tutti questi temi vanno ragionati non isolatamente in qualche intervento, ma tutti quanti e tutti insieme, con una opzione politica finale chiara, impegnativa, condivisa. E invece è evidente che il gruppo “rete ecosolidale” questo non può garantirlo. Solo se non vanno a fondo dei problemi possono stare insieme. Sul manifesto l’iniziativa è stata presentata con l’auspicio che non si tratti di una delle tante false partenze della sinistra nel ricorrente tentativo di rimettere insieme le varie realtà e esperienze. Ma come esserne certi? Di certo c’è solo la debolezza delle basi politiche di questo ennesimo tentativo.

L’appello A sinistra, ci vorrebbe un partito ha almeno il merito di usare la parola giusta: partito. Problema capitale: quello della sinistra, del suo ruolo, della sua organizzazione. Da affrontarsi nei termini giusti, cioè costituzionali (art. 49) e di teoria politica moderna. Non dunque una “rete”, un “campo” o una “soggettivazione”, secondo la formula dell’ex-ministro Fioramonti (fra i promotori invece della “rete ecosolidale”). Perché in una democrazia moderna e costituzionale la forma per eccellenza della “soggettivazione” politica è proprio il partito.
Per fortuna non c’è solo l’asfittico dibattito italiano.

La giurista Amna Akbar sul New York Times dell’11 luglio ha scritto che dalle proteste americane seguite all’uccisione di Robert Floyd sta sorgendo una nuova sinistra. Una sinistra di “non-reformist reforms”, cioè riforme radicali, di struttura e di alternativa; una sinistra capace di avviarsi di nuovo sui “paths to revolution”, sui sentieri della rivoluzione. L’agenda sono i diritti civili (a cominciare da quello alla vita dei Black Bodies) ed economici, il diritto alla salute e alla casa, l’ambiente. E il problema democratico per eccellenza: redistribuire il potere “from elites to the working class”. Così scrisse il New York Times.

È troppo chiedere alla sinistra italiana di alzare un po’ il livello della discussione e dell’ambizione politica?