In Storia senza perdono (Einaudi, pp. 96, euro 12), Walter Barberis affronta una ricognizione dell’impervio dibattito sulla memoria della Shoah che negli ultimi anni ha opposto storiografia e testimonianza, nella tensione tra l’irrinunciabile racconto dei superstiti e la necessaria impersonalità della ricerca storiografica. Lo fa con passo lieve, percorrendo l’enormità dell’accaduto, non emendabile, non rimediabile. Non soggetto a perdono.

METTERE ASSIEME storia e perdono, fin dal titolo, è una mossa che sembra riconciliare i due corni della discussione: il perdono, necessariamente individuale, viene assunto, nella sua negazione, dalla storia. È la storia stessa a farsi depositaria del giudizio, e dunque garante – in un paradosso – dell’impossibilità di archiviare, di mettere la testimonianza nel passato: la storia ci dice che siamo di fronte a un passato che non passa né deve passare.
Primo Levi, riportato in esergo nel volume, ammoniva, quasi cinquant’anni fa: «Quando ho scritto Se questo è un uomo ero convinto che valesse la pena di documentare queste cose perché erano finite. Adesso non sono più finite: bisogna parlarne di nuovo». Bisogna parlarne di nuovo, con urgenza, risignificando ciò che abbiamo trasformato in retorica, convinti di averlo metabolizzato per sempre.

GIÀ A UN DECENNIO dalla fine della Seconda guerra, ci si chiedeva se avrebbe ancora potuto succedere: se la catastrofe avrebbe potuto ripetersi, magari in condizioni e luoghi diversi. Lo scivolamento nell’oblio stava anestetizzando la sensibilità di molti. «Partiti e movimenti fascisti erano stati rifondati e, per quanto ufficialmente banditi, spesso erano tollerati e legittimati dalle aree politicamente più moderate e conservatrici». Con passo misurato, quasi silenzioso, l’autore ci porta agli interrogativi che oggi ci stanno di fronte: quale difesa abbiamo dal potere assoluto che decide della vita delle persone e toglie umanità alle vittime, dopo aver trasformato i cittadini in carnefici passivi o volonterosi? Poca, se non si comprende, o si dimentica, che la nostra normalità si basa sull’orrore trattenuto, che può sempre rompere le catene.
Testimonianza e storia concorrono così «a rifornirci di una conoscenza e di una razionalità che ci consentono di mantenere vive le ragioni della democrazia contro ogni tentazione autoritaria, intollerante e razzista», perché, come insegna Levi, il nazionalismo e il razzismo, al fondo della loro espressione estrema, hanno il Lager.

LA DIMENSIONE individuale della memoria, corale nel ripetersi uguale e tuttavia diverso delle esperienze, e la comprensione storica degli avvenimenti ci conducono insieme, inseparabili, alle molteplici cause del male che d’un tratto si libera e prende il potere, asservendo o incantando persone insospettabili, una dopo l’altra, fino a farne massa.
«Il male ha sempre cause molteplici, persino remote», scrive Barberis, «anche se si manifesta con la rapidità e la micidialità di un colpo di fucile. L’occhio non riesce neppure a vedere la traiettoria della pallottola; lo sguardo può fermarsi soltanto sulle conseguenze, sui cadaveri, sulle carni ferite, sulle menti sconvolte di coloro che sono stati colpiti». La storia è il colpo di pallottola, di cui vanno ricostruite balistica e condizioni di possibilità; la testimonianza è lo sguardo che torna, e torna infinitamente, sui cadaveri, sul male subito e che si è visto subire da altri.
In Storia senza perdono si coglie una tensione allo sguardo d’insieme, a quella che, con bella invenzione, viene chiamata “conoscenza civile”, e una continua attenzione a evitare i luoghi comuni, le parole usurate di cui è lastricato il racconto della Shoah, svuotate, dilavate da un uso improprio e affrettato, fino a diventare scorciatoie del pensiero.
Così che quando leggiamo dei «tantissimi inerti, la maggioranza dimissionaria da qualunque responsabilità morale e civile», possiamo di nuovo chiederci se siamo chiamati in causa, fuori dalla formula della «zona grigia» che, non diversamente da quella, fraintesa e distorta, della «banalità del male», ha smesso di interpellarci.