Bastò un gesto di geniale semplicità a inaugurare la stagione partenopea delle mani sulla città. Con un abile colpo di pennello, mani ignote agli inizi degli anni ’60 modificarono il colore che nella legenda del piano regolatore del 1939 identificava le aree agricole: da giallo improvvisamente diventarono verdi e i terreni poterono così essere considerati edificabili, dando il via alla cementificazione di Fuorigrotta, del Vomero e dei Colli Aminei. Quando si scoprì l’inganno, grazie al fatto che, delle tavole originali, erano state manomesse solo quelle del Comune e dell’Archivio di Stato ma non una terza copia in possesso del Ministero dei Lavori pubblici, era ormai troppo tardi, e al giudice del Tribunale penale non rimase che «prendere atto del modo nel quale fondamentali interessi pubblici risultino non essere stati realizzati dallo Stato, per incuria, leggerezza, ignoranza di dipendenti ed amministratori ignoti, ma anche per la dolosa partecipazione di altri rimasti ignoti, a diversi livelli e con diverse responsabilità, e ciò soltanto per consentire a branchi di costruttori e speculatori di distruggere l’ambiente naturale della città, realizzando profitti di innumerevoli miliardi».

Se si vuole risalire alle origini della peggiore disgrazia accaduta al nostro Paese dal dopoguerra, il sacco edilizio che ha gli ha modificato radicalmente i connotati, il caso napoletano merita la menzione d’onore per l’improntitudine. Ma non è da meno l’anarchia edilizia della capitale, l’espandersi a macchia d’olio di quell’isola nell’agro che un tempo era Roma, tra le baraccopoli di immigrati meridionali trasformate in quartieri di casette basse e le grandi opere della vaticana Società generale immobiliare che ispirarono all’Espresso la celebre inchiesta «Capitale corrotta, nazione infetta». Non lo sono neppure il più felpato «rito ambrosiano» con il quale il centro di Milano – scrisse Antonio Cederna – si riempì di «blocchi di edifici in forma di enormi fette di formaggio parmigiano», la «curva Fanfani« che consentì di far passare l’autostrada del Sole ad Arezzo e tutto ciò che ha contribuito a punteggiare di villette e palazzoni l’intero corpo dell’Italia, come una malattia esantematica.
Eppure, quando i bombardieri della Raf sorvolarono la penisola nel ‘43, il paesaggio italiano era ancora quello descritto da Goethe e dai viaggiatori del Grand Tour. Viene da chiedersi com’è stato possibile, in appena cinquant’anni, fare quello che in cinquemila non era stato realizzato. In virtù di quale abbaglio collettivo o scellerata combinazione di interessi particolari e scelte politiche.

Valentino Parlato colse nel segno con un articolo pubblicato nel 1970 sulla Rivista del manifesto. A rileggerlo oggi, lo si potrebbe ripubblicare quasi integralmente: un «blocco edilizio», in cui i generali erano i titolari di grandi patrimoni e gli speculatori, e la fanteria i piccoli proprietari terrieri, teneva in scacco l’Italia come un esercito di conquistatori: «Ci sono tutti: residui di nobiltà fondiaria e gruppi finanziari, imprenditori spericolati e colonnelli in pensione proprietari di qualche appartamento, grandi professionisti e impiegati statali incatenati al riscatto di una casa che sta già deperendo, funzionari e uomini politici corrotti, e piccoli risparmiatori che cercano nella casa quella sicurezza che non riescono ad avere dalla pensione, oppure che ritengono di risparmiare in avvenire sul fitto pagando intanto elevati tassi di interesse, grandi imprese e capimastro, cottimisti». A ben guardare, è sempre lo stesso «blocco» a tenere in scacco l’Italia ancora oggi, fortificato da trent’anni di liberismo che hanno sradicato anche dal pantheon della sinistra qualsiasi idea di città pubblica o di messa in discussione dell’onnipotenza del cittadino proprietario e hanno prodotto tre condoni edilizi e un Piano Casa: il primo firmato da Bettino Craxi, tutto il resto opera di Silvio Berlusconi.

La suggestiva tesi di Vezio De Lucia è che a toccare i poteri forti si muore, politicamente parlando. L’urbanista napoletano, fondatore del Comitato per la bellezza, consigliere di Italia Nostra e protagonista della stagione del Rinascimento napoletano nella prima giunta Bassolino, in un saggio-inchiesta, Nella città dolente (Castelvecchi editore, pagg. 215, euro 19), rilegge la storia italiana dal dopoguerra a oggi alla luce delle sue politiche edilizie. Lo fa in maniera precisa, seguendo il filo degli eventi – non disgiunto da una buona dose di memorie personali – e la sequenza di provvedimenti legislativi, piani regolatori e tutto ciò che si agitava attorno ad essi. E allo stesso tempo mettendo in evidenza le differenze tra centro-nord e centro-sud – Roma e il Lazio vengono ascritte a quest’ultimo, mentre Bologna e Firenze sono aggiudicate al primo – e il filo rosso che tiene unito il nostro Paese nella corsa al cemento selvaggio.
Addirittura, il mancato golpe del generale De Lorenzo – il cosiddetto Piano Solo del ’64 – viene riletto alla luce della «rivoluzionaria» proposta di legge del ministro democristiano Fiorentino Sullo che avrebbe favorito gli espropri, e perfino la stagione stragista degli anni ’70 viene riletta alla luce della questione urbanistica. Di certo, gli interessi in ballo erano di non poco conto: si trattava di dare un tetto a una popolazione in costante incremento demografico, che si spostava in massa dalle aree interne a quelle costiere o cittadine, e da sud verso le fabbriche del nord. Dunque, scriveva Sullo, «una popolazione che si sposta in grande massa ha bisogno innanzitutto di case: tante case, ed a basso costo». E, si chiedeva, «come sarebbe possibile che i proprietari dei suoli, specie in un Paese come l’Italia di tendenza guicciardiniana più che machiavellica, amante del particulare, se ne stessero cheti cheti senza darsi da fare per favorire la nascita di piani regolatori di comodo in cui prevalga l’interesse particulare? E la cui spesa sia pagata esclusivamente, poi, dalla collettività?»

È una lotta che ha conosciuto anche momenti entusiasmanti e non pochi successi: le battaglie contro lo scempio della Valle dei Templi ad Agrigento o l’ecomostro del Fuenti in Costiera Amalfitana, gli abbattimenti di 400 villette abusive ordinati dal sindaco di Eboli Gerardo Rosania, ad esempio. Se non ci fosse stata una stagione di grande cultura urbanistica – della quale lo stesso De Lucia è stato protagonista indiscusso – oggi probabilmente non avremmo i centri storici tutelati, i parchi nazionali e le aree protette, la via Appia antica a Roma sarebbe una strada come le altre e piazza Plebiscito a Napoli ancora un grande parcheggio.
La situazione è degenerata a partire dagli anni ’80, quando non si è riusciti ad arginare la deriva neoliberista che contagiava anche la sinistra, nonostante il proliferare delle organizzazioni ecologiste e la nascita del partito dei Verdi. De Lucia ritiene l’ambientalismo italiano corresponsabile della disfatta: «È stato poco attento al paesaggio». Non si è riuscito così a impedire che l’Italia, diventando un Paese di proprietari di abitazioni – prime case per se stessi, seconde case al mare e altre da lasciare in dote ai figli – vedesse trasformato radicalmente il proprio paesaggio, che non è più quello ammirato dai bombardieri della Raf nel ’43. Oggi si calcola che l’80 per cento degli italiani è proprietario di almeno un’abitazione, e questo non fa che aumentare la consistenza del «blocco edilizio», rafforzarne le ragioni e le resistenze al cambiamento. Sarà per questo che l’autore del «più terrificante testo di controriforma urbanistica che si possa immaginare», il pidiellino Maurizio Lupi, è appena stato nominato ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture? E che il primo provvedimento del governo Letta sarà la revisione dell’Imu?