«Chi non ha fatto l’inchiesta non ha diritto di parola»: la massima (e la regola) di Mao ci fa dire subito che Angela Pascucci, anche con questo suo ultimo libro «Potere e società in Cina. Storie di resistenza nella grande trasformazione» (Edizioni dell’Asino-libri de lo Straniero, pp. 170, euro 12) si è pienamente conquistata questo diritto. Del resto già confermato con il precedente lavoro Talkin’ China pubblicato, con preziosa prefazione di Wang Hui, dalla manifestolibri nel 2008. Non sembri rituale il richiamo al valore dell’inchiesta politico-giornalistica che non è solo disponibilità e tensione all’approfondimento: l’inchiesta, e il libro di Angela Pascucci ne è una prova, cerca nuovi interlocutori, stabilendo una pratica di conoscenza a fondamento di nuovi, possibili rapporti e relazioni politiche.

Che cosa è cambiato in Cina da cinque anni a questa parte, tanto da aver indotto l’autrice ad un nuovo reportage sul campo? È accaduto che tutti fenomeni sociali, le urgenze economiche e le evidenze istituzionali si siano estesi e approfonditi, che quasi tutti i nodi siano venuti al pettine, dentro una accelerazione antropologica che si rappresenta ormai nelle «vite di resistenza». Mentre l’ufficialità della scena illumina solo la concordata uscita di scena dei potenti del partito e del governo per l’avvento al potere di una nuova leadership, la Quinta generazione di Xi Jinping e Li Keqiang. Oppure mostra il poderoso scandalo di Bo Xilai, il potente capo di Chongqing e «principino rosso» della nomenklatura, caduto in disgrazia per malefatte, coruzione, un delitto attribuito alla moglie, la fuga nel consolato Usa del suo braccio destro, ma in realtà per lo scontro di potere interno al Partito comunista cinese anche sulle modalità di rapporto verso le nuove figure della crisi sociale che, il «rosso» Bo Xilai – per essere popolare non ha disdeganto forme dell’epoca maoista – cercava di governare con una specie di nuovo patto sociale l’immensa metropoli industriale del Sichuan. Comunque, anche la vicenda Bo Xilai non paragonabile per ampiezza e profondità alla caduta nel 2006 del «grande protettore» Chen Liangyu, il segretario del Partito di Shanghai.

Conglomerato di contraddizioni

Ecco dunque, raccontata direttamente, attraverso le persone, la grande trasformazione cinese degli ultimi trenta anni: la Cina è la seconda potenza economica del pianeta sulla strada di diventare ormai la prima; il mondo per effetto dei cambiamenti radicali cinesi non è più eguale a se stesso; la Terra di Mezzo si è trasformata nel più grande conglomerato umano di contraddizioni e paradossi. In una metamorfosi di luci e ombre che probabilmente condizionerà l’esistenza dell’intera umanità. Perché la realtà cinese è la faccia della modernità, della nostra contemporaneità. Lì in uno specchio deformante, c’è riflessa l’intera ambiguità del nostro stesso modello di sviluppo. Proviamo ad elencarli i paradossi che corrispondono ad una ragnatela inestricabile, «un cantiere aperto che sfida la comprensione» dice Angela Pascucci: partito unico, sedicente comunista, e capitalismo selvaggio; onnipresenza dello stato e individualismo sregolato; sorveglianza capillare e censoria e una comunità ribollente di 570 milioni di internauti; crescita della ricchezza e insieme ineguaglianze abissali di reddito, con conflitti sociali, economici e ambientali fortissimi e tenuta del sistema stato-partito; dove la città ha preso il sopravvento sulla campagna abbandonata, in venti anni, da 250 milioni di cinesi per andare a lavorare in città; con disillusione, scontento, quando non disprezzo, verso i governanti e la corruzione che li pervade e identificazione forte con la potenza della nazione. Com’è facile intendere, siamo dentro un vulcano di un miliardo e 350 milioni di esseri umani. Dove vige un ferreo «capitalismo di partito», cioè deciso dall’alto dopo la sconfitta, negli anni Settanta, di una linea anticapitalista all’interno del partito che continua a definirsi comunista e che conferma la scelta capitalista per costruire, in un fututo sempre più lontano, le basi economiche di un «socialismo dalle caratteristiche cinesi». In una Cina dove, dice la vulgata popolare, il socialismo non si vede più ma sono rimaste solo «le caratteristiche cinesi». Paradosso dei paradossi, questa scelta cinese ha portato al fatto che la Cina sia rimasto l’unico paese capitalista al mondo capace di avere risollevato per ora le sorti di questo modello di sviluppo sul pianeta.

La strada maestra

Per Angela Pascucci, la comprensione reale di tutta questa illuminante oscurità cinese non ci è data dalle analisi che puntualmente costellano l’universo dei governi e degli osservatori occidentali, spesso solo attenti agli indicatori economici, secondo la logica capitalistica del profitto. Ci arriva solamente dall’umiltà della ricerca sul campo che inventaria le resistenze umane a questa generale violenza economica, politica e sociale. Sono le vite delle persone in carne ed ossa che con il loro comportamento «contro» probabilmente stanno radicando le basi di un movimento e di un futuro alternativo allo stato delle cose presenti.

Quelle vite impossibili, incastrate nei processi macro-economici e nelle scelte dall’alto, ma da molto, molto tempo testimoni attivi e reattivi. Viene da riflettere sulle parole di Edoarda Masi che, di fronte al crogiolo rappresentato dalla Tian An Men dell’Ottantanove scopriva, diversamente da altri che ne vedevano solo modi e ammiccamenti occidentali, la complessa agorà sociale che in quella piazza parlava e si rappresentava contro i dieci anni di denghismo dominante, indicando che lì si rendeva evidente per la prima volta una «scia» che veniva dai nodi irrisolti sul modello di sviluppo della Rivoluzione culturale del 1966, una «scia» che sarebbe continuata a lungo nella società cinese. Una speranza che, ricordando le parole di Lu Xun – in esergo nel libro -, è come un viottolo di campagna che, percorso e riattraversato, diventa sentiero e strada maestra dell’umanità.

Ecco il sentiero. Sia che si dia voce alla protesta di Heping, vicino alle rive del Lago dell’est, presso Wuhan nel cuore della Cina, lì dove è in atto uno scontro sulle espropriazioni dei terreni e sulle remunerazioni non solo basse ma letteralmente rubate dai funzionari locali corrotti, dentro il più generale conflitto di classe dell’urbanizzazione forzata, una vera e propria metropolizzazione della terra che ha abbattuto la storica frontiera tra città e campagna. Sia che s’intervisti quello che potremmo definire il teorico del ritorno alla terra, He Xuefeng, anzi, del «diritto al ritorno alla terra» per l’immensa migrazione dei nonmingong, la nuova figura sociale dei contadini migranti diventati operai, che hanno riempito prima le zone speciali e adesso le mega-aree urbane anche dell’interno, lasciando un vuoto che ha creato una frattura d’interessi tra chi se n’è andato e chi è rimasto; perché la terra è interessata da un ciclopico e speculativo intervento di privatizzazione che in questo momento costituisce in Cina la frontiera dell’arricchimento spregiudicato e corrotto. Sia che si racconti la storia della signora Wu, un tempo contadina a tempo pieno ora sradicata, che con altre nove donne s’è inventata un lavoro nell’orto botanico di Wuhan. Sia quando si scoprono le nuove forme di organizzazione della classe operaia e delle sue lotte – parliamo degli operai della «fabbrica del mondo», questo è la Cina per la produzione e riproduzione delal vita materiale – sedimentate in micro-strutture informali che hanno su Internet il principale punto d’aggregazione indipendente, oltre e contro l’isopportabile ruolo paludato dei sindacati ufficiali e verso la definizione di «diritti» negati, quasi di una nuova cittadinanza del lavoro. Perché questo protagonismo è una delle maggiori novità della realtà cinese degli ultimi tre anni, da meritare la copertina dell’Economist.

La classe della formiche

Dalle proteste del 2010 alla Honda di Foshan che innescarono la più grande ondata di scioperi dell’ultimo decennio cinese – il diritto di sciopero è stato abolito nel 1982 – fino alle lotte di massa degli operai della multinazionale taiwanese Foxconn a Zhengzhou, nella Cina centrale. Normativo e salariale il primo, contro lo sfruttamento bestiale e le condizioni di lavoro che hanno portato al suicidio alcuni lavoratori, il secondo. Ma, scrive Angela Pascucci, sempre un paesaggio d’anime e di consumatori-produttori senza presente, di operai ragazzini persi tra megadormitori e fabbrica, nonmingong senza ritorno alla terra e contadini senza terra appesi ad un mitico «sviluppo» promesso dal governo «che li userà solo come comparse». Fino alla scoperta di inedite figure. Una nuova borghesia, che ha meno di quaranta anni ed è concentrata nella fascia costiera e nelle aree metropolitane di Shanghai, Pechino e Canton; un «movimento minimo» ma con la «fantasia all’attacco» sulle questioni di genere, con l’attivazione di centri lesbian, gay, bisexual e transgender; e la vera e propria nuova classe delle «formiche», i giovani laureati disoccupati o sotto-occupati, precarizzati nel lavoro e nella vita che si consuma nei quotidiani e massacranti attraversamenti, tra centro ed estrema periferia di città con decine di milioni di abitanti ciascuna come Shanghai, Guangzhou, Chongqing e Nanchino. «Formiche» dall’immenso potenziale creativo inutilizzato, ma ricorda Angela Pascucci, vista l’emarginazione e le condizioni di vita, anche «distruttivo».